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da leggere: “Lady Cinema ” di Valentina Torrini

Lady Cinema” di Valentina Torrini edizioni le plurali

Recensione di Chiara Cremaschi

La mia maestra delle elementari si chiamava Gemma Martinenghi. Quando l’ho conosciuta, aveva già una certa età e gestiva con dedizione le classi che le venivano affidate, classificate sempre sotto la lettera “E”, l’ultima sezione, che raccoglieva per la maggior parte gli “ultimi” del quartiere, i ripetenti, e qualche eccezione, tra cui io, che comunque venivo da una famiglia bislacca e quindi sotto la lettera “E” ci stavo tutta. La maestra Gemma si inventava continuamente dei metodi per farci imparare e, quegli anni, cioè la fine degli anni ’70, le hanno permesso di imparare molto anche lei. L’ha fatto con entusiasmo. E in classe abbiamo imparato costruendo degli spettacoli teatrali, scrivendo e suonando delle canzoni, guardando insieme dei film. Ho pensato a lei, leggendo “Lady Cinema”. Penso che le sarebbe piaciuto e che l’avrebbe studiato e usato in classe. D’altra parte, la maestra non si era scomposta quando, per l’esame di licenza elementare, le avevo comunicato che avrei parlato del libro che mi aveva regalato mia mamma: “Cambia il corpo, cambia le vita”, scritto dai collettivi femministi americani. E non si era troppo scomposta neanche quando, al suddetto esame, ho spiegato alla commissione che, alle riunioni del collettivo femminista di mia mamma, mi avevano fatto cercare davanti a uno specchio dove era il mio clitoride, e io l’avevo trovato. “Lady cinema” sarebbe stata un’ottima guida per il suo desiderio di insegnare e di imparare, per la sua ricerca di strumenti che ci potessero far riflettere su come guardare il mondo uscendo dagli stereotipi.

Valentina Torrini, l’autrice del libro, l’ha scritto con competenza e vera passione.Il testo è organizzato in due parti, definite “la teoria” e “la pratica”. La prima analizza il rapporto tra il cinema e le donne, partendo dalla constatazione che una parte della popolazione, quella maschile, può trovare con facilità sullo schermo un modello in cui riconoscersi: i protagonisti dei film sono principalmente uomini. Spiega che, un’analisi dei film destinati a un pubblico infantile usciti nelle sale tra il 1999 e il 2005, ha messo in luce che solo il 28 per cento dei ruoli parlanti era assegnato a personaggi femminili. Il tempo sullo schermo occupato dalle parti maschili, in generale, è il doppio rispetto a quello riservato ai ruoli femminili; divario che si colma soltanto se la protagonista del film è una donna, assestandosi sul cinquanta e cinquanta, un criterio comunque non democratico. Le donne, poi, parlano sempre meno degli uomini, in termini di battute, anche se sono le co-protagoniste. In questa prima parte si ripercorre a grandi linee la storia del cinema dal punto di vista delle donne (spettatrici, addette ai lavori, attiviste e critiche femministe) toccando temi come il cinema classico (dagli anni Venti agli anni Sessanta del Novecento) e il ruolo delle grandi dive; la nascita e lo sviluppo della Feminist Film Theory e la critica cinematografica femminista; il ruolo della cine-spettatrice.

Nella seconda parte – “la pratica” – Torrini elenca e analizza sei strumenti pratici da applicare per attivare le nostre lenti femministe durante la visione di un film, per renderlo cioè̀ più̀ facilmente leggibile in termini di contenuto e messaggio. Ogni strumento è corredato da alcuni esempi pratici. L’autrice sceglie film che ritiene esemplari secondo la sua sensibilità̀ e il suo giudizio, senza la pretesa di definirli validi in senso universale o assoluto. Per ogni scheda di analisi dei film, inserisce un livello di femminismo che va da un minimo di zero a un massimo di cinque. Per ogni strumento analizzato, segnala anche un film per piccole cine-femministe in erba, che rispetta quel determinato requisito.

Senza avere la pretesa di dichiarare quale sia il “film femminista perfetto”, l’autrice ci dà dei consigli per attivare “le lenti femministe” alla visione di un film, rifacendosi a diversi test:

Il Bechdel test, per cui: la storia deve contemplare almeno due personaggi femminili; i due personaggi devono parlare tra loro; l’argomento del loro discorso non deve riguardare un uomo (un compagno, un capo, un figlio); punto bonus se le due personagge  hanno un nome.

Il principio di Puffetta, coniato nel 1991 da Katha Pollitt, poeta, saggista e critica statunitense: «Gli spettacoli contemporanei sono essenzialmente tutti maschili o sono organizzati su quello che io chiamo il principio di Puffetta: un gruppo di amici maschi sarà̀ caratterizzato da una femmina solitaria, definita in modo stereotipato. Il messaggio è chiaro. I ragazzi sono la norma, le ragazze l’eccezione; i ragazzi sono centrali, le ragazze periferiche; i ragazzi sono individui, le ragazze dei “tipi”. I ragazzi definiscono il gruppo, la loro storia e il loro codice di valori. Le ragazze esistono solo in relazione ai ragazzi».

Il test della lampada sexy, proposto dalla fumettista Kelly Sue De Connick :«Se puoi sostituire il tuo personaggio femminile con una lampada sexy e la storia fondamentalmente funziona ancora, scrivi di merda».

Il test Mako Mori. Mako Mori è un personaggio femminile immaginario ed è interpretato dall’attrice nippo-americana Rinko Kikuchi in Pacific Rim (2013). Il film, che ritrae solo tre donne che non si parlano tra loro (violando così il Bechdel test), include comunque un personaggio di donna forte, combattente e autonoma di origine asiatica e che, seppur da personaggio secondario, segue uno sviluppo proprio. Eppure, la critica femminista sostiene che, nonostante le caratteristiche positive, Mako Mori sia ancora un personaggio che esiste solo in relazione ad altri personaggi maschili. Il test mette dunque in rilievo il fatto che, spesso, un ruolo femminile esiste solo per completare il ruolo del maschio di turno, come spesso accade appunto nei film d’azione e di supereroi, classico appannaggio degli uomini.

Il Clit test, ovvero il test della clitoride, ideato da «alcune persone con la clitoride» e può̀ essere applicato ovunque venga rappresentata una scena di sesso (in un film, ma anche in un libro o in una canzone). Le teorizzatrici del Clit test, consapevoli del fatto che questa analisi si applichi soprattutto a scene con coppie etero o lesbiche, ci tengono però a precisare che non si tratta di limitarsi a chi possiede una clitoride, ma si dicono aperte a contemplare esperienze di soddisfazione sessuale eterogenee. Quindi, per un’analisi femminista, non possiamo basarci soltanto sul fatto che in una scena di sesso o di masturbazione sia o meno presente la clitoride (non tutte le persone che si riconoscono nel genere femminile possono averla), ma che il corpo venga rappresentato in maniera rispettosa e non come mero oggetto di soddisfazione sessuale per il maschio. Tra i film che superano il test ci sono anche quelli che mostrano scene di sesso con donne mature o persone che appartengono alla terza età̀ e donne con fisicità̀ non conformi o persone con disabilità.

L’altro test possibile è tramite la filmologia, area di ricerca cinematografica teorizzata nel 1946 dallo studioso francese Gilbert Cohen-Séat. Secondo lo studioso, dietro la creazione di un film che voglia davvero rappresentare la realtà̀ in maniera metodica, dovrebbe esserci un lavoro di squadra che coinvolga esperti di varie discipline, tra le quali la sociologia, la linguistica, l’estetica, ma anche la psicologia e la psicanalisi. E proprio da basi psicanalitiche è nato il concetto di situazione cinematografica, termine con il quale si intende «quel complesso costituito da schermo, sala e spettatore nel quale si dispiegano processi quali il riconoscimento e la decifrazione di quanto viene mostrato, l’abbandono al piacere delle storie, l’immedesimazione con i personaggi della vicenda, la fantasticheria e la rielaborazione personale». Questa analisi, secondo l’autrice, è particolarmente importante quando sullo schermo vediamo donne nere o non caucasiche, e donne che non corrispondono ai canoni conformi e standardizzati di una femminilità̀ socialmente approvata.

Valentina Torrini porta numerosi esempi di film, che spaziano nel tempo, nei generi e nelle cinematografie. Ci racconta che desidera dei film in cui le donne hanno ambizioni e conflitti interiori che non hanno per forza a che vedere con gli uomini, che non tutte le donne hanno l’irrefrenabile desiderio di essere definite dal partner che hanno scelto (o più̀ spesso che le ha scelte), che vuole vedere al cinema personagge che stanno ai vertici, coraggiose, impavide, studiose, donne guerriere, che non hanno bisogno di un’armatura con tette in vista per attirare l’attenzione (in stile Xena), ma anche donne sposate, innamorate, madri e casalinghe, che hanno fatto una loro scelta di vita consapevole, con una loro identità̀ e uno spessore che non le limiti solo in stereotipi banali secondo il vecchio e odiato binomio puttana/madre di famiglia.

Riferendosi alla scrittura cinematografica, ormai per la maggior parte basata sullo schema del “viaggio dell’eroe” definito da Vogler partendo dagli studi di Campbell, presenta invece il lavoro di Maureen Murdock, educatrice e psicoterapeuta. Secondo Murdock, il “viaggio dell’eroina” non ricalca quello lineare dell’eroe, ma è un percorso circolare scandito in tappe, che inizia con una reazione forte a tutto ciò̀ che rappresenta il femminile (famiglia, amore, cura, maternità̀), per poi proseguire con la ricerca del raggiungimento dei valori cosiddetti maschili (indipendenza, carriera, potere, successo economico). La terza tappa è un momento di disperazione e confusione, di caduta, che conduce a un’inevitabile discesa per incontrare il femminile oscuro, che rappresenta la nostra vera essenza e che spesso facciamo fatica ad accettare o addirittura a riconoscere. Superata questa, emerge il desiderio di riconciliarsi con la propria parte femminile. Il termine del viaggio comporta, infine, la ridefinizione e la conferma della validità̀ dei valori femminili e la loro integrazione con le caratteristiche positive maschili, che si sono apprese nella prima parte del viaggio. Il “viaggio dell’eroina” è complesso, doloroso, comporta una caduta e, forse, una riemersione.

Secondo Torrini, sullo schermo, la storia della nostra eroina dovrebbe essere una storia vera di autodeterminazione. Potrà̀ scegliere di diventare una reporter di guerra, un’ingegnera, una fisica nucleare. Meglio ancora, potrà̀ essere una supereroina, una guerriera e, perché́ no, una serial killer. Ma invita a non condannarla se sceglie di essere felice facendo l’estetista, la maestra, la pasticcera o semplicemente la moglie e la madre e, soprattutto a non restare deluse se, nonostante tutto, scenderà̀ fino a toccare il fondo, perderà̀ e ne uscirà̀ sconfitta di fronte alla vita, a sé stessa e anche ai nostri occhi. Le personagge dei film sono il nostro riflesso sullo schermo, da loro traiamo forza, ispirazione e coraggio, e quando sbagliano, l’invito è a riconoscerle e accoglierle come dovremmo fare con noi stesse. Approfittando di questo transfer cinematografico, potremmo salvarci da un’altra sindrome, quella della superdonna.

La conclusione del saggio è che un film non è un insieme di elementi positivi che, sommati tra loro, danno un risultato matematico certo. Un’opera che rispetti tutti i requisiti elencati non è detto che trasmetta un messaggio femminista e inclusivo, e viceversa. Il sesto senso di chi guarda gioca un ruolo fondamentale e si potrebbe definire il settimo e l’ultimo strumento di analisi. La sensibilità̀, l’esperienza e il confronto con altre persone (amiche, colleghe, conoscenti, altre femministe, ma anche uomini illuminati), che vivono realtà̀ diverse dalla nostra e possono notare (e far notare) dei dettagli che avevamo sottovalutato, saranno fondamentali per attivare le lenti femministe. E, infine, con l’ironia che sottende tutto il testo, invita a non sentirsi in colpa se, riguardando il finale di Pretty Woman (1990), scapperà̀ una lacrimuccia o se verranno gli occhi a cuore guardando per la milionesima volta: Mai stata baciata (1999).

Infine, l’autrice riflette sulla presenza e visibilità delle donne nel cinema. Secondo i dati dell’Unione europea, a diplomarsi nelle scuole di cinema sono in parte quasi uguale femmine (44 per cento) e maschi (56 per cento). Ma questa analisi non si replica nel mondo del lavoro, in cui la media di dirigenti donne nel settore è, infatti, sotto il 20 per cento. Inoltre, le donne nel cinema sono in media pagate il 54 per cento in meno dei loro colleghi uomini. I dati raccolti in sette paesi dell’Unione europea, tra il 2006 e il 2013, mostrano che c’è stato un incremento del numero di film diretti da donne nei festival nazionali e internazionali e che questi film hanno vinto più̀ premi di quelli diretti da uomini.

Anche in Italia i dati si replicano, più̀ o meno uguali: sono diretti da donne solo il 21 per cento dei film Rai e solo il 12 per cento di quelli a finanziamento pubblico. Questo non significa che i registi siano più̀ meritevoli delle registe, ma piuttosto che queste ultime sono ostacolate nel loro percorso formativo e di affermazione. La poca rappresentanza femminile dietro la macchina da presa (e in generale nei mestieri del cinema) comporta anche una mancata rappresentazione di personaggi femminili all’interno dei prodotti cinematografici.

Io sono certa che la maestra Gemma avrebbe usato tutti i consigli di Valentina Torrini, e spero che il suo libro sia letto e usato in più percorsi di formazione possibili.

Valentina Torrini si è formata in Progettazione e gestione di eventi dell’arte e dello spettacolo con una specializzazione in Critica cinematografica. Vive a Firenze e da tredici anni lavora nel settore del cinema. Ha collaborato con il blog Feministyou.net con una rubrica di critica cinematografica femminista.

 

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