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Ritratti di paure e di perdite

Delle donne afghane, della loro resistenza, di come sopravvivano e lottano non si sente quasi più parlare, anzi si può dire che sono sparite dai mezzi di informazione. Le notizie, poche, riguardano la crisi economica in cui è piombato l’Afghanistan, ma anche in questo caso le informazioni restano assai generiche.

Non sempre le cose vanno così. Capita anche di leggere notizie e informazioni ben documentate, nonostante gli ostacoli posti dalla leadership talebana. Sull’Washington Post 12 gennaio 2022) due giornaliste raccontano come sono riuscite a avere informazioni e a avere contatti: Ruby Mellen e Loveday Morris hanno raccolto  i racconti, le foto, i video di quattro giovani donne afghane contattandole ogni settimana con telefonate, con messaggi WhatsApp per quattro mesi.

Nel riportare le loro storie usano pseudonimi o il nome non seguito da cognome per ragioni di sicurezza, per far si che non siano individuate. L’articolo dell’Washington Post è  accompagnato da disegni tratti dalle foto inviate, che la testata ha utilizzato rielaborandole,  e facendo scorrere le immagini all’interno dell’articolo, così da visualizzare i cambiamenti delle loro vite.

Le storie riportate si basano sui racconti personali, danno eco al controllo imposto dai talebani da quando hanno ripreso il potere e della molteplicità dei vincoli e delle discriminazioni.

Tre sono le parole chiavi che percorrono i racconti; Aspettiamo- Guardiano-Non abbandoniamo la speranza.

Tre delle giovani donne vivono in Kabul e la quarta, professoressa universitaria, nel nord del paese. Si chiama Aliya; le altre Pahlawan, Kheard,Sajida.

Le donne afghane che si raccontano sono state molto attive nella vita pubblica nei decenni precedenti; ora il loro nascondersi è un modo per resistere. I sogni di prendere una laurea, di costruire una professione, una impresa sono stati sostituiti dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza. Amaramente sottolineano che le facce delle donne sono scomparse dalla vita pubblica; ma già prima degli ordini dei talebani, nei negozi (come quelli di parrucchiere di Kabul) i poster delle donne nelle vetrina erano stati coperti per evitare di attirare l’attenzione dei militanti. In novembre è stato vietato alle donne di apparire nei drammi televisivi, in dicembre di prendere un taxi per percorsi superiori 45 miglia se non sono accompagnate da un uomo. I racconti fatti ci dicono che devono sempre essere accompagnate da un uomo quando escono dalle mura delle loro abitazioni.

Le quattro giovani sono Sciite, gruppo religioso a lungo perseguitato dai talebani. Negli ultimi venti anni gli Sciiti – pur essendo minoranza – hanno potuto godere di molti vantaggi e opportunità nel campo educativo e in quello lavorativo. L’appartenenza a gruppi religiosi minoritari (come gli Hazara-Shiiti) è stato uno dei motivi di discriminazione e di persecuzione da parte dei Talebani, già nel periodo che governarono tra il 1996-2001. L’essere donna diventa un ulteriore motivo di persecuzione. E le ragazze di Kabul hanno molta paura di ritornare alle  persecuzioni dei vecchi tempi per motivi religiosi.

Racconta Aliya “io vado all’Università perché non voglio che i diritti delle studentesse  si perdano. Altrimenti tutte le mattine non mi alzerei dal letto per la disperazione e la depressione”. Dopo che i talebani hanno preso il potere alcune donne hanno cercato di resistere. Una settimana dopo che la città del nord Mazar-e Sharif è caduta, Aliya, la ventisettenne insegnante universitaria, ha sentito che la sua vita passata si eclissava.  “Sto aspettando. Fisso il soffitto. Aspetto per sapere cosa decideranno per noi”. Dichiara.

In precedenza, Aliya, mentre frequentava l’Università in Iran, aveva partecipato alla lotteria della green card per andare negli USA, era il 2019. E vinse. Alla notizia i suoi sentimenti e pensieri divennero meno chiari; da un lato racconta “Con esso arrivava la promessa di maggiore libertà, ma sentii un desiderio profondo di insegnare alle donne del mio paese”. Quell’atto in sé ora è vissuto come un atto di resistenza: “Devo essere qui” aggiunge “Voglio restare, sono qui, sono attiva”. In settembre l’Università dove lavora rese nota una circolare emessa dal ministero della Cultura dell’Emirato islamico Afghano (nome dato dai Talebani) in base alla quale tutti gli studenti e i dipendenti devano indossare il “hijab religioso” e tassativamente di “colore nero” e di fattura simile a quelli indossati in Arabia Saudita.

Aliya decise di sfidare i divieti e indossò il normale velo religioso, però colorato, ma fu respinta dalle autorità scolastiche e spedita a casa per cambiarselo. “Dopo poco ritornò ad insegnare e disse ai suoi studenti di non farlo”. “Non ho armi per fare la guerra, ma ho la mia voce”.

Tuttavia, la reazione degli studenti fu di paura, alcuni se ne andarono, altri restarono ma terrorizzati.

 

Pahlawan, studentessa di 27 anni, fotografa e poetessa, facevano parte delle donne mobilitate nella protesta contro i Talebani, iniziata su Facebook, Telegram e WhatsApp. “Io volevo essere coinvolta in una protesta pacifica” e racconta  che non disse nulla ai suoi genitori che andava alla prima protesta. “I talebani usarono gas lacrimogeni, ma non ci furono botte”. Ciò accrebbe la sua voglia di partecipare.

L’8 di settembre ci fu un’altra protesta alla quale partecipò “sebbene suo padre le chiese di non andare”;  questa volta i Talebani usarono gli scudisci e anche lei fu frustrata quando si chinò per raccogliere il cellulare. Da allora “Suo padre le proibì di andare alle manifestazioni”, e sottolinea  “In ogni caso sono diventate meno frequenti”.

Ciò che teme di più Keard (la terza giovane)  è “che qualcuno faccia la spia. Se i Talebani vengano e mi prendano, io non ho un uomo che mi difenda e mi protegga”. Ha perso il padre in un attacco terroristico quando era bambina. E racconta che i suoi vicini sono stati derubati da uomini armati e, secondo voci del popolo, prelevati di notte e fatti sparire. Poi delle teste mozzate sono apparse nelle grondaie delle loro case. Si dice che lavorassero per il governo passato. E aggiunge: “Io non esco per paura da settembre”, ben un mese dopo che i Talebani hanno preso il potere. “Una giovane donna, in Kabul, senza nessun maschio di famiglia se va fuori da sola diventa immediatamente un bersaglio”. “Se abbiamo bisogno di andare in un negozio di alimenti, è mia madre che va a comperare”.

Prima dell’arrivo dei Talebani Keard lavorava in un asilo, era insegnante; ha anche lavorato per il passato Ministero degli Affari Interni. “Ora impossibilitata a lavorare, aspetta a casa impaurita e nella speranza di raggiungere suo fratello e famiglia negli Stati Uniti con un visto speciale di immigrazione”. Ulteriore elemento di paura sono le persecuzioni religiose. Un giorno in ottobre  ha visto portar via dalle case dei vicini due uomini: “non avevano lavorato per il governo precedente ma erano Hazara”, piccolo gruppo etnico Sciita. “Non credo che ci sia un luogo sicuro per il popolo sciita in Afghanistan” ha detto Keard specie dopo la bomba della metà di ottobre, nelle moschee sciite di Kandahar e Kunduz. Le bombe hanno ucciso una dozzina di fedeli. L’attacco è stato rivendicato dallo Stato islamico.

E … nel pomeriggio dell’attacco alla moschea di Kandahar (e la morte dei fedeli), città nota anche per i melograni (oltre che per essere la città del Mullah Omar), Pahlawan scrisse una poesia paragonando i fedeli assassinati ai rossi melograni. Una poesia triste e piena di dolore.

Sajida è una studentessa ventitreenne. Il suo ultimo giorno all’Università di Kabul risale al 16 agosto 2021; giorno in cui ricevette insieme agli altri studenti una mail in cui era scritto: “la sessione è cancellata a seguito dell’entrata dei Talebani in Kabul”. Sajida aspirava di avere un suo diploma e poi fare un master in business all’estero e un giorno diventare dirigente. “Ora il mio sogno in Afghanistan è restare in vita”, e aggiunge: “la mia famiglia e la mia salvezza sono molto importanti”. Attualmente passa il tempo stando prevalentemente a casa e preparando le cena per suo fratello che invece continua ad andare a scuola tutti i giorni. E’ riuscita a proseguire in un lavoro per una organizzazione non governativa che aiuta donne in stato interessante.

Racconta che in novembre, disperata e desiderosa di ritornare alla normalità rischiando molto,  è tornata in ufficio dove lavorava prima: “Mi sono sentita confortata nel ritornare ancora nel mio posto di lavoro, ma non tutto era normale come nel passato”, infatti è andata accompagnata dal, padre che è venuto con me “come un escort” si sfoga. “Io ho paura a viaggiare da sola”.

La narrazione prosegue e  sull’Washington Post si legge

Pahlawan passò la giornata lavorando a maglia e disponendo i pomodori sul tetto ad asciugare.

Keard incominciò a lavorare nel giardino.  Keard che vive in casa con la madre, trovò insopportabile quella monotonia”. “Mi sento intrappolata” disse un giorno d’ottobre. “Non ho molto da fare in casa”. Raccontò che lei e sua madre ascoltavano la radio e guardavano la televisione, ma che la loro soap opera favorita trasmessa dalla Turchia non era più disponibile.

Rammenta con amarezza Aliya; “Prima, si poteva sentire musica per tutta la città… ma ieri non c’era alcuna musica”. Era scomparsa tutta la musica, che un tempo invadeva tutte le città afghane, trasmessa dalle gelaterie e dai ristoranti.

Le giornate di Pahlawan un tempo erano tutte impegnate: alla mattina insegnava alle donne analfabete, e al pomeriggio studiava. Lavorava anche a una radio. Ma la sua indipendenza era stata cancellata. I suoi timori presero corpo un giorno di novembre quando lei era fuori con la madre. Non avevano un accompagnatore maschio, denominato mahram. Un pickup si fermò davanti a lei -ricorda con voce spaventata quel giorno e in successive telefonate. “Che cosa fate qui?”, chiese il Talebano.

Rispose che sua madre aveva la pressione alta e che doveva camminare. “Qual’ è il tuo lavoro?”, chiese l’altro. Rabbrividì; aveva sul volto la mascherina, ma aveva parlato alla televisione nel corso delle proteste.

“Dovete venire con me”, fu risposto a Pahlawn. Sua madre intervenne: “Mia figlia non ha fatto niente”.

Uno dei Talebani si stava avvicinando a Pahlawa allora la madre impugnò la bottiglia d’acqua per scacciarlo. Ma lui per primo colpì in faccia la madre, provocandole immediatamente un livido rossastro. La madre lo pregò di perdonarle e il talebano rispose:” Che questa sia l’ultima volta che voi andate in giro senza un mahram. Vi perdete!

Il padre di Pahlawan non aveva mai appoggiato completamente gli obiettivi della vita di lei. Lui auspicava che lei abbassasse la testa e lasciasse perdere fotografia e giornalismo. Bisticciavano molto.  Le sue e-mail alle ambasciate straniere non erano andate da nessuna parte. “Sfortunatamente io non sono così brava”, sussurrò piangendo al telefono.

Attualmente è impegnata nel tentativo di raccogliere del denaro a favore di famiglie bisognose del suo vicinato.

 

Sajida vive la stessa disperazione. “Sono perduta. Ho perduto la mia motivazione, e l’energia che avevo prima”, ora “penso solo alla pace e alla sicurezza”.

“Finalmente dopo un lungo percorso, faticoso e pieno di sofferenze è arrivato il permesso per un luogo dove ho sempre desiderato essere”. Ad Aliya l’appuntamento per una intervista all’ambasciata degli USA in Islamabad (Pakistan) fu segnalato da un tintinnio della busta caduta nella buca delle lettere alla fine di settembre. Per lei questo significò varcare un confine, ma non appena ne fu lontana disse che si sentiva annientata. Pianse per la sua famiglia e per il suo paese. Con un visto per gli USA riuscì finalmente ad andare con un aereo a San Francisco e a stare da degli amici di famiglia vicino a Sacramento.

Fu solo quando sentì le notizie da casa che la tristezza si insinuò di nuovo.

Per le donne in Kabul, la situazione sta volgendo al peggio con l’avanzare dell’inverno. Il cibo diventa sempre più scarso e il riscaldamento sempre più caro. Pahlawan ha detto che i risparmi della sua famiglia stanno andando via. Hanno ridotto le spese per il cibo e comprano meno pane perché troppo caro. Dalla sua finestra Keard vede le persone bruciare plastica, vecchie scarpe perché non hanno carburante. La gente si è ammalata per questo.

E ha detto:

I giorni a venire ora sembrano ricordare un sogno perduto

La mia situazione è così brutta. Io non so quale sia la cosa giusta fare ora – Pahlawan

Prima avevamo delle speranze per il futuro ma ora tutto è delusione dice Sajida

Non ci sono guerre in Afghanistan, ora, ma la tirannia è peggio della guerra.

Da: Portraits of fear and loss. The Taliban rule through the eyes of four women in Afghanistan, by Loveday Morris and Rudy Mellen, The Washinghton  Post, Jan.12, 2022.

 

 

 

 

 

 

 

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