A contatto con il dolore: Limiti e complessità della cura.
Ne abbiamo parlato con L’autrice di “Fine di una madre” Paola Pastacaldi, con la sociologa Marina Piazza e con la direttrice di Vidas Giada Lonati in occasione della presentazione del libro avvenuta il giorno 16 gennaio presso l’Unione Femminile di Milano.
Paola Pastacaldi ha raccontato come è nato questo libro: la quotidianità della vita vicino alla madre malata le ha fatto lentamente cambiare le idee che aveva sulla vita e sulla morte. La necessità che sentiva maggiormente a contatto con questa realtà era quella di essere aiutata spiritualmente, di parlare con i medici, di essere confortata.
Ad un certo punto ha realizzato che nessuno aveva affrontato l’analisi di questi sentimenti e quindi ha cominciato a scrivere un diario, quasi più per gli altri che per sé stessa. Paola ha osservato che spesso si è così assorbiti dell’impegno della cura che la storia dell’anziana/o passa in secondo piano. Non è più così importante chi è o chi è stata, ha cambiato natura; è diventata l’oggetto della cura e dell’impegno.
Marina Piazza concorda e cita Jean Campbell che nel suo “Spazzolare il gatto” dice: “La gatta e io stiamo imparando il processo di espropriazione. Invecchiare è spesso descritto come un accumulo, di malattie, sofferenze, rughe, ma è in realtà un processo di espropriazione, di diritti, di rispetto, di desiderio,
di tutte quelle cose che una volta possedevi e di cui godevi con tanta naturalezza.” Marina pensa che il diario sia stato scritto da Paola anche per prendere contatto con il dolore.
E’ un diario senza date, dove racconta, mano a mano che la malattia della madre procede, il susseguirsi di percezioni, di stati d’animo, di sentimenti, che potrebbero anche essere letti come stazioni di una via crucis. S’incontra la solitudine del caregiver, l’impossibilità di trovare risposte ai perché del dolore e della sofferenza, l’indignazione per il comportamento delle istituzioni e di coloro che per formazione dovrebbero saperti tenere la mano, il forte rifiuto della realtà, l’orrore che l’esperienza dell’ospedale spesso riserva, la rimozione del presente e il ricordo della persona che era sua madre con la sua forza e la sua voglia di vivere. Quando nel magma denso della sofferenza e della paura si aprono spiragli di ricordi con le immagini della madre giovane, viva, attiva ed il processo di identificazione del caregiver con la malata che crea una fortissima paura, e poi lentamente si fa spazio la compassione, la tenerezza con abbracci e baci per condividere con la madre questo ultimo pezzo di vita.
Giada Lonati, medico palliativista, afferma che questa disciplina dovrebbe curare non solo il paziente, ma anche la famiglia, che è una piccola società.
Chi muore è il protagonista perché muore per la prima volta. Quando si ammala avrà cure per lo stato acuto della malattia che potrà poi evolversi in stato cronico; quindi, avrà il tempo per vedere il proprio degrado, ma anche il tempo per poter fare delle scelte. Le cure palliative sono un lavoro collettivo. Serve una diffusione di un umanesimo medico ed è necessario reintegrare nella società il concetto di finitudine all’interno della vita. Questo ci aiuterebbe a vivere meglio, ad avere una longevità felice.
Dai vari interventi delle partecipanti abbiamo raccolto alcune parole chiave su cui riflettere insieme: