Newsletter N. 106
Ottobre 30, 2023
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Novembre 27, 2023
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Pace e Maternità di Silvia Vegetti Finzi

“ Che scocchi finalmente l’ora della comprensione

reciproca e della tenerezza ! Il nostro futuro fiorirà

dai germogli della fratellanza e della condivisione: una ritrovata luce

ci condurrà verso un luogo di speranza”. Livia Pomodoro

Al rapitore dico “PACE”

Prigioniera di Hamas, al momento del rilascio l’ostaggio Yochevet Lifshitz , una signora israeliana di 85 anni, ferita e stremata,  ha salutato il suo aguzzino stringendogli la mano e formulando un augurio: “ Shalom”, Pace.

Con questo gesto è divenuta : visionaria di Pace

Ringrazio Gianna per aver mirabilmente esposto e commentato l’esperienza, ch’io condivido, delle Donne del silenzio per la Pace.

Dal canto mio vorrei mostrare che cosa ci autorizza a testimoniare un desiderio di Pace che anche gli uomini condividono. In quanto donne che senso ha il silenzio, oltre al fatto evidente che la parola, divenuta chiacchiera, è ormai squalificata?

Privi di referenti autorevoli, siamo alla ricerca di nuovi interlocutori, ma anche di nuove identità. Un’indagine che rivolgiamo per prima cosa a noi stesse. Ma non è facile nel momento in cui una situazione d’emergenza provoca un clima di paura e le emozioni minacciamo le nostre stesse capacità cognitive.

Epoche di crisi ce ne sono sempre state ma questa è più critica delle altre in quanto un nuovo assetto geopolitico del mondo si accompagna a uno squilibrio irreversibile dell’ecosistema.

Secondo Papa Francesco è in atto una guerra mondiale non dichiarata ma parcellizzata in tante guerre locali- Alla nostra attenzione: Russia-Ucraina ; Israele – Palestina

Impotenza degli Enti tradizionali:

Stati, Confederazioni e Entità sovranazionali quali Onu, Unesco, Nato, Banca Mondiale, Fao e Comunità Europea non riescono a imporre ai belligeranti alcun provvedimento, neppure pochi giorni di tregua.

Questa crisi di autorità e di potere richiede un cambio di prospettiva, uno sguardo più alto, ampio e complessivo.

La visione globale è favorita dai viaggi spaziali che rinviano immagini di una  Terra senza confini geopolitici, un globo terracqueo da ridisegnare.

L’acquisizione di uno sguardo da lontano, di una visione globale, comporta un’etica universale che rinvia al concetto di “Umanità”, ai valori dell’umanesimo classico – Attuali progetti propongono, come quello di Marco Manzoni, qui presentato poco tempo fa, un “nuovo umanesimo”.

Sul tema della guerra, la prospettiva umanistica intende contrapporsi alla logica binaria amico-nemico che ha assunto, nella modernità, la forma della violenza incondizionata dove non è tanto importante vincere quanto annientare il nemico, farlo scomparire dalla faccia della terra, a costo di distruggere la propria casa, di mandare a morire i  propri figli e forse, visto l’immane arsenale atomico a disposizione ,  di por fine all’umanità.

La parola umanità, con tutti i suoi derivati, di fatto si mostra abusata e consunta : si parla continuamente di “aiuti umanitari”, “tregua umanitaria”, “corridoi umanitari”, appelli inascoltati, incapaci d’incidere sulla realtà che sembra procedere inesorabilmente, mossa da una oscura coazione e ripetere.

Credo che l’impotenza dell’umanità a salvare se stessa derivi dal fatto che si tratta di un concetto astratto, impersonale, indifferenziato, privo di soggetti, di agenti collettivi capaci di dargli vita, di dargli corpo.

Forse le donne, in quanto differenti dagli uomini, portatici di un’altra identità sessuale

possono introdurre una nuova visione del mondo, modi differenti di stare insieme, di affrontare i conflitti senza distruggersi a vicenda. Non si tratta di idealizzare l’esistente , sappiamo che non tutte le donne sono femminili né tutte le madri sono materne.

Ma di far emergere disposizioni latenti, energie misconosciute, stili di vita sopraffatti dalle richieste di omologazione imposte da una società patriarcale organizzata per menti e corpi maschili.

Nelle immagini di guerra, che circolano sui mass-media e sui social, protagonisti della guerra sono i corpi: corpi affranti, affamati, feriti. Corpi morti.

Ed è col corpo che dobbiamo legittimare la nostra volontà di pace.

Una volontà espressa, manifestata da soggetti incarnati, sottratti alla falsa neutralità del simbolico, soggetti che riconoscono la priorità di un Io -corpo, secondo il modello freudiano.  Come sostiene il filosofo Merleau Ponty, noi non abbiamo un corpo, noi siamo il nostro corpo.

Dopo la sottovalutazione del corpo, operata dalle teorie del Gender, è necessario compiere un processo di “emboding”, d’ identità incorporata, incarnata.  Il termine , tratto da Virginia Woolf,  è messo in racconto da Nadia Fusini  nel suo ultimo libro “Creature in bilico”.

Sono d’accordo con chi riconosce nelle Donne il soggetto che, non avendo mai  dichiarato guerra, non avendo fruito della deroga che concede allo Stato la facoltà di uccidere negata al singolo, possa rappresentare un’alternativa a risolvere i conflitti uccidendosi a vicenda. Guerra è un sostantivo femminile ma è la Pace ad aver volto  di donna. Se dovessi immaginarne uno, sarebbe quello di Maria Montessori, promotrice del programma “Educazione alla pace”, un compito fondamentale e urgente.

L’impegno di non restare indifferenti (“in tempi oscuri, osserva Bertolt Brecht,  la fronte pura tradisce l’apatia “ ) ma di scendere in campo dal versante della Pace è un compito che ci siamo date. Per evitare di ridurlo a un gesto occasionale, occorre però legittimalo, esplicitare chi lo propone e quale scopo intende ottenere.

Un gruppo di donne, come ha appena raccontato Gianna Stefan, lo sta attuando esponendosi fisicamente, in silenzio, allo sguardo di tutti. Quando la parola tace, il corpo parla.

Le donne sono un “soggetto imprevisto” dice Lea Melandri scrivendo sul Manifesto della guerra e delle sue logiche arcaiche. Un soggetto con una identità sessuata che la guerra cancella ribadendo ogni volta che si tratta di una “questione maschile”, di corpi e atteggiamenti virili.

Sappiamo invece che donne e bambini nella guerra ci sono da sempre e, da quando il conflitto non è più simbolizzato e localizzato nei campi di battaglia, costituiscono gran parte delle vittime.

Nell’ambito della violenza militare, il terrorismo rappresenta la versione estrema di conflitti disumanizzati ove il bottino di guerra è fatto di corpi, soprattutto femminili e infantili che, utilizzati come ostaggi, divengono l’arma più potente del suo arsenale militare.

Donne e bambini, madri e figli rivelano che la maternità, il corpo generativo e il legame primario, costituiscono un bersaglio fondamentale per la violenza terroristica. Violentando e uccidendo le donne in quanto madri reali o potenziali, s’intende mettere  a tacere la prima e l’ultima parola del nemico.

La fine della madre recide la genealogia dell’altro, ne eclissa passato e futuro, lo estromette dalla storia, che è storia di vincitori più che di vinti

 

Vorrei soffermarmi ancora una volta sul termine “maternità” per metterne in crisi la falsa evidenza. Il Femminismo lo ha sempre considerato con sospetto temendo   ci riportasse alla condizione riservata dal Patriarcato alle madri, contraddistinta da obbedienza, dedizione, oblatività, rinuncia alla propria realizzazione. Le ricerche storiche hanno spesso contraddetto questa visione perché, anche nelle società più arcaiche, vigeva una autorevolezza materna non dichiarata ma reale.

Il rifiuto di valorizzare la componente materna ha depotenziato la nostra identità e ridotta la differenza con l’altro sesso. In quanto figlie abbiamo riconosciuta l’importanza delle madri reali e simboliche ma sottovalutato il processo di divenire madri, la potenza generativa di un corpo che, con il contributo maschile, può procreare, dare vita a chi verrà.

Come effetto secondario, il rigetto della componente materna ha provocato una  svalutazione degli studi sulla maternità, scarsamente diffusi, poco promossi e tramandati, soprattutto quelli italiani.

Per fortuna il bel libro della filosofa Rosella Prezzo “Trame di nascita. Tra miti, filosofie, immagini e racconti”, appena pubblicato da Moretti e Vitali, ha suscitato interesse e apprezzamento.

Vorrei ribadire che con il termine “maternità” non mi riferisco soltanto alla funzione del corpo femminile di partorire figli, che utilizzo come metafora.

Ma intendo una facoltà latente che può o meno passare all’atto, realizzarsi.

Al di là della logica ostetrica, la “maternità” si definisce come capacità di pensare e vivere maternamente utilizzando potenzialità generative, e sottolineo “potenzialità” iscritte nel corpo e nell’immaginario di ogni donna.

La specificità sessuale femminile è contraddistinta da caratteri prevalentemente materni. Anatomia e fisiologia sono predisposte per dare la vita ma non si tratta, come per gli animali, di un comando istintuale necessario e inderogabile.  Per noi è sempre possibile gestire diversamente queste risorse, negarle oppure trovare differenti modi per riconoscerle, esprimerle e realizzarle.  Mentre gli animali si riproducono noi procreiamo mettendo al mondo ogni volta un essere unico, diverso dagli altri, non replicabile.  Analoga creatività contraddistingue grandi e piccoli gesti femminili capaci di trasformare le relazioni esistenti e produrne di nuove. Basta pensare alla particolare disponibilità nel prendersi cura, non solo professionalmente, dei più deboli e fragili.

Vi è nel corpo femminile e materno una componente generativa, ideativa   in senso artistico, che riguarda tutte, madri e non madri.

Evitare questa inutile contrapposizione è il primo passo per formulare un Noi universale, capace di superare le contrapposizioni, etniche, di cultura, di classe, di censo e soprattutto di genere. Tutti si nasce figli.

Come scrive Adrienne Rich: “Tutta la vita umana sul nostro pianeta nasce da donna. L’unica esperienza unificatrice, incontrovertibile, condivisa da tutti, uomini e donne, è il periodo trascorso a formarci nel grembo di una donna…Per tutta la vita e persino nella morte conserviamo l’impronta di questa esperienza”.

La prima dimora ci rende cittadini del mondo, abitanti dello stesso pianeta.
“La casa, scrive Freud, è una sostituzione del ventre materno, della prima dimora cui con ogni probabilità l’uomo non cessa di anelare, giacché in essa si sentiva al sicuro e a proprio agio…Amore è nostalgia e, quando colui che sogna una località o un paesaggio pensa, sempre sognando, “questo luogo mi è noto, qui ci sono già stato,  è lecita l’interpretazione che inserisce al posto del paesaggio, il sesso femminile, il corpo della madre”.

Ogni nascita, in quanto mette al mondo una creatura che prima non c’era rappresenta è per tutti,  secondo Hannah Arendt, un nuovo inizio, una inedita apertura al futuro.

Come racconta il film, “Salvate il soldato Ryan”, la necessità di salvaguardare la sopravvivenza di una madre, che tutte le rappresenta, induce lo Stato maggiore americano, nel corso dell’ultima guerra, a  sospendere il combattimento per riportare a casa l’unico  sopravvissuto di tre figli, due caduti in combattimento, perché una donna possa dirsi ancora una volta madre e un uomo figlio.

Se la disposizione materna del corpo femminile costituisce una potenzialità aperta a vari investimenti, la filiazione ne rappresenta il paradigma etico.

Di fronte all’agire del corpo materno ci rendiamo conto di quante e quali risorse sperperiamo nel corso della nostra vita, incapaci di riconoscere ciò che da sempre sappiamo.

Ne troviamo un esempio nel fenomeno organico dell’accoglienza materna.

Comunque non credo che la biologia attribuisca a qualcuno una posizione privilegiata nell’ambito della conoscenza. Saranno piuttosto l’introspezione, l’osservazione, l’interpretazione a trasformare il sentire in sapere. Il corpo è pensante e la mente corporea, una reciprocità che ci permette di cogliere, nell’organismo materno e nelle relazioni col suo nato, metafore di moralità che l’etica astratta ignora.

Un paradigma etico.

Dopo la fusione di ovulo e spermatozoo, l’embrione si installa nel grembo materno, ove avviene un fenomeno unico e inspiegato. Contrariamente agli impulsi di rigetto che rendono così difficili i trapianti d’organo, la gestante sospende le difese immunitarie e accoglie senza riserve un organismo che le è parzialmente estraneo in quanto il 50% dei geni che lo compongono derivano dal padre. Una disponibilità incondizionata che la società non riconosce.

Nella genealogia femminile il passaggio di madre in figlia accade, come nelle Matrioske russe, transitando dall’una all’altra lungo una catena di corpi femminili che si trasformano da contenuto in contenitore.

I maschi invece passando, durante la gestazione, nel corpo dell’altro sesso vivono una estraneità che li rende diffidenti, più vigili e attenti alle differenze e alle gerarchie.

Mentre le donne, sottratte allo sguardo maschile che valuta e discrimina, lasciate a se stesse si sciolgono, secondo uno slogan femminista, “come acqua nell’acqua”-

Quanto l’etica naturale e materna dell’ospitalità  sia andata perduta nell’epoca dei muri, dei respingimenti, dei naufragi, dei soccorsi negati lascio a voi valutare.

Potrei portare altri paradigmi di etica materna, ma li riassumo nella considerazione che traggo dal mio libro “Il bambino della notte. Divenire donna divenire madre”, del 1990, dove scrivo: “Esaminato come una delle possibili interazioni interumane,

il rapporto madre-figlio si mostra così dissimmetrico da rappresentare la forma più violenta di dominio. La madre possiede, nei confronti del neonato, più potere di quanto nessun tiranno abbia mai sognato di esercitare. Il possesso del padrone sullo schiavo,  il comando del signore sul servo, l’arbitrio dell’aguzzino sul prigioniero sono ben poca cosa in confronto alla presa che la madre detiene sulla sua creatura  inerme .Eppure il possesso materno non diviene mai, salvo in casi di follia, arbitrio, volontà di soggezione,  annichilimento dell’altro.

Invece di occupare il posto del potere, la madre si sdoppia: da una parte contiene il bambino fragile e bisognoso di dedizione e di cura, dall’altra si allea con le sue dinamiche emancipanti, con le energie che tendono all’individuazione e alla separazione.

Su queste capacità avrebbe molto da ridire la psicoanalista Laura Pigozzi, creatrice del neologismo “plusmaterno” che critica, nella società capitalista dell’Io e del Mio, il protrarsi oltre ogni limite  dell’ attaccamento materno.

Tradurre la metafora del potere materno in termini storici, leggerla come dissimmetria tra dominanti e dominati, ci consente di pensare alla guerra adottando un Noi femminile, una soggettività incorporata che riveste come tale una portata universale.

Credo che tutte le donne del mondo, ovunque risiedano, qualunque sia la loro condizione possano riconoscersi in un corpo erotico e materno e in una relazione madre-figlio che, in quanto vitali, si oppongono con particolare vigore alla guerra, espressione delle potenze di morte che pure esistono in noi.

Mentre la storia della civiltà divide, l’ordine naturale unisce. Il ciclo della fecondità femminile è influenzato dalle fasi lunari, dall’alternanza delle maree, da bioritmi che inducono i ginecologi, per prevedere la data del parto,  a utilizzare il lunario più che il calendario . Vi è nel corpo femminile un aspetto segreto che sfugge al controllo razionale e scientifico. Non è casuale che sia un uomo a immaginare che la disponibilità femminile al rapporto sessuale possa essere utilizzata come strumento politico.

Nella commedia Lisistrata, “colei che scioglie gli eserciti”, Aristofane immagina che Lisistrata inviti   le donne a uno sciopero sessuale per evitare che i loro uomini partano per la guerra. La protesta riuscirà nel suo intento e tutti, esasperati dall’astinenza protratta, torneranno allegramente a casa. E’ un evento mai accaduto, una fantasia maschile mai realizzata ma l’immaginazione è sempre propositiva.

Un’altra, questa volta reale protesta all’uccisione dei figli, la offrono le Madri della Plaza de Mayo e le Donne in nero, collettivi che hanno coraggiosamente testimoniato l’orrore di genocidi imperdonabili.  Le loro denunce   risultano importanti e ammirevoli, ma per certi versi tardive. Accadono quando tutto è ormai avvenuto.

Perché non opporsi alla guerra prima, esercitando forme di resistenza pacifica, in nome dei figli vivi, di generazioni che rappresentano il futuro dell’umanità ?

La filiazione e la relazione madre-figlio sono le stesse che una donna viva nel centro di Parigi o nella steppa russa. Il loro amore per il figlio vivo, il loro strazio per il figlio morto si equivalgono. E’questa universalità che andrebbe proposta e agita contro la guerra. Come Martin Luter King, “I have e dream”, anch’io ho un sogno: se tutte le donne del mondo stipulassero, dandosi la mano, un patto per promuovere e difendere la Pace, l’incubo della guerra scomparirebbe dal nostro orizzonte.

Concludo infine con una canzone che cantavamo negli anni settanta, anni di lotta e di speranza.

“I miei figli li dò solo a una bella fidanzata, che li porti nel suo letto, non li mandi no a morir, avvoltoio vola via, vola via dalla terra mia, che è la terra dell’amor”.

Una utopia irrealizzata e probabilmente irrealizzabile ma l’immaginazione, come sostengono Einstein e Freud, anticipa ogni ideazione. Con questa speranza vi ringrazio e vi invito a proseguire l’incontro ascoltando il discorso conclusivo di Lidia Campagnano che introduce, sul tema della guerra,  una dimensione femminista e politica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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