Colpisce che nei commenti arrivati da un gruppo di donne che ci segue, non sia emerso il sentimento dell’incertezza. Forse, come più volte in redazione ci siamo dette, si tratta di un gruppo di privilegiate, non solo per condizioni abitative e relazionali, ma per educazione e consuetudine, abituate a lottare, lavorare, pensare senza lasciarsi travolgere dalle situazioni contingenti.
Però fa pensare questa mancanza perché, diciamolo, mai come in questo ultimo anno e mezzo, le nostre giornate sono state più o meno sottilmente pervase da questo sentimento che poco si sposa con l’abitudine indotta o imposta dell’immediata e razionale risposta a tutti i nostri quesiti.
Un microscopico virus sconosciuto (certamente non il primo, né l’ultimo), ci ha improvvisamente catapultato in una sorta di ‘nebbia’ dove ciascuno di noi ha espresso la propria capacità o meno di tollerare una situazione non controllabile.
Chi ha sciato in gioventù o ancora scia, ricorderà la sensazione di sgomento e di paura quando si era circondati dalla nebbia più assoluta. Disperatamente si cercava di trovare punti di riferimento, segni, rumori che potessero indicare una direzione che ci portasse finalmente a valle, al sicuro.
La situazione che abbiamo vissuto e continuiamo a vivere, sottolinea la differenza tra paura e angoscia; si ha paura di un oggetto ben determinato, e la paura ha un risvolto positivo perché attiva in ciascuno una difesa, ma di fronte al nulla, alla ‘nebbia’, all’indeterminatezza, si scatena l’angoscia.
L’esperienza di una pandemia come quella da COVID-19 in un mondo regolato da dati, statistiche, algoritmi, linee guida, protocolli, procedure sempre più minuziose per non lasciare nulla al caso, più di una guerra, ha fatto emergere un concetto antico e purtroppo molto combattuto dalla società attuale: incertezza e salute vanno di pari passo.
Per citare un pezzo di Umberto Galimberti a metà di questo anno:
“Quello che dobbiamo riuscire a capire è che la scienza non dice la verità, dice cose esatte. La parola esatto viene dal latino ex-actu che significa ottenuto dalle premesse da cui si parte. Essere “esatti” è un obiettivo che si raggiunge secondo una logica processuale, sperimentale.“
Le informazioni rispetto alla pandemia da COVID-19 hanno favorito il consolidamento di un’incertezza duratura legate alla natura vaga e imprevedibile della malattia, alla comprensione limitata di una sua probabile progressione, alla scarsa conoscenza dell’efficacia di possibili cure, alla scarsa conoscenza di quelle che saranno – a breve lungo termine- le ripercussioni di questa epidemia a vari livelli (individuale, salute pubblica, situazione economica e finanziaria).
A questo proposito la mole di comunicazioni, dichiarazioni, opinioni che in questo lungo periodo ci hanno bombardato se da un lato ci ha permesso di aggrapparci o di converso allontanarci da notizie buone o cattive, lasciandoci sperare in un esito positivo, dall’altro ci ha svelato tutta la nostra precarietà, ma soprattutto ci ha reso consapevoli della fragilità strutturale umana di fronte all’ignoto, a cui ognuno risponde in modo diversificato.
È infatti la capacità di gestire l’incertezza che differenzia ciascuno di noi e collettivamente.
Quello che emerge dai commenti delle nostre donne sono le strategie per affrontare l’incertezza, non la rappresentazione del sentimento, quindi un ‘fare’ personale o sociale a volte costruttivo, a volte maniacale ipercontrollante, o, al contrario, un chiudersi, un ‘non fare’, sospendendo il proprio impegno a proteggersi e proteggere.
Sarebbe utile, in tutti i campi, riflettere sull’incertezza, concentrarsi su un mondo sempre più alla ricerca di spasmodiche verità e sicurezze. E’ un compito arduo, forse il più difficile, ma potrebbe essere propulsivo per un adeguato cambiamento di rotta.