e voi ci avete risposto raccontandoci poco della vostra vita pratica, ma molto dei vostri stati d’animo e dei sentimenti che stavate vivendo. Ci ha colpito questa voglia di “andare in profondità” e ci è piaciuto scoprire che tutte noi stavamo lottando con emozioni contrastanti ed a volte nuove, che formavano un “fil rouge” che ci univa. Fatiche e scoperte che vi proponiamo in questo numero dedicato ai sentimenti ai tempi del lockdown e come sempre lo facciamo con i colori anche della leggerezza.
Speranza e Strategie
Nella pubblicistica attuale, in tanti scritti, testimonianze, conversazioni, un sentimento ci è sembrato comune: la differenza tra il primo e il secondo lockdown. Nel primo la sorpresa, la paura, ma anche una sorta di messa alla prova della propria e altrui capacità di resistenza, il desiderio di non lasciarsi travolgere, la voglia di combattere la solitudine forzata attraverso l’appartenenza dichiarata a una comunità (i balconi, i canti, le bandiere, il bicchiere di vino a distanza, insomma la riscoperta di tanti e nuovi riti collettivi, prima inimmaginabili. La speranza che dopo il buio tornasse la luce. Ma quando dopo la luce dell’estate, è tornato il buio, la rappresentazione collettiva è cambiata ed è cambiato anche il nostro teatrino individuale. Siamo state colpite dalla seconda ondata come dalla recidiva di una malattia. E ci siamo trovate a fronteggiare un secondo trauma, con l’ansia trasformata in angoscia, in paura della morte.
Così abbiamo voluto provare a chiedere alle nostre lettrici del sito quali fossero stati per loro i riti di contenimento, le modalità con cui affrontavano questo nuovo tempo sospeso. Non molte hanno risposto, ma ci è sembrato interessante e utile provare a darne un’immagine complessiva. I temi che ci sembrano essere stati più “raccontati” : anzitutto e prima di tutto un sentimento comune a tutte, anche se con toni diversi. Un sentimento, una “postura”, spesso persino sorprendente, di affermazione di forza, di resistenza sulla lunga durata, di resilienza si potrebbe dire se non fosse una parola troppo abusata. L’ostinata volontà di trovare qualche appiglio, di non lasciarsi travolgere dal disastro, di non abbandonarsi al lamento, di cercare soluzioni. In un certo senso, l’applicazione del wabi sabi giapponese.
Riuscire a scorgere la bellezza dell’imperfezione, apprezzare la bellezza degli oggetti rotti, l’arte di riparare, accettare la natura transitoria e incompleta di tutte le cose. Il filo d’oro che rabbercia i pezzi del vaso rotto, ne mette in mostra le imperfezioni e lo rende così più prezioso. Un modo diverso per ciascuna, anche molto empirico, mai sostenuto dalla retorica dell’eroismo, piuttosto dall’ostinata volontà di andare a cercare quel filo, proprio quello.
Per più di una è stato l’aggancio a lavoro, che c’era prima, che ora è diverso, ma c’è e lo si tiene stretto (“ho indossato la corazza protettiva del super lavoro quindi studio, leggo, scrivo e organizzo iniziative”; “ho risposto con un impegno maggiore di lavoro, poco tempo dedicato a me, al mio svago”. Per qualcun’altra la scoperta o la riscoperta del potere salvifico di rimediare all’assenza attraverso la presenza virtuale consentita dalla tecnologia (”mi sembra di aver guadagnato più consapevolezza”), per qualcun’altra ancora, la scoperta di una continuità con la vita di prima (“continuo a vivere come sempre, nella misera del tempo, anzi di una maggiore vicinanza (non so se per volontà mia o degli altri, ma non ho mai vissuto in una rete di comunicazione così intensa”), per un’altra ancora la lotta contro il tempo sospeso, i desideri sospesi in cui non si osa pensare al dopo, si configura come il porre un limes tra i momenti della giornata, costruendo precise scalette di tempi e spazi (“la mattina al computer e alla lettura dei giornali ,il pomeriggio un po’ di studio, una passeggiatina sul terrazzo. la sera un film. E cambio stanza, così mi sembra di passare dalla casa alla strada, dalla strada a una piazza, dalla piazza al cinema”).
Strategie diversificate, ma in qualche modo mezzi per sottrarsi al giogo di un fluire ansiogeno, all’apprensione che si fa più concreta per il moltiplicarsi della contagione del virus, che sfiora famigliari e amici, per combattere contro “una sindrome da tana che invade”.
Un altro tema che si evidenzia nei racconti è il tema del rapporto con l’Altro, con gli altri, quelli che sono fuori dalla tana. Naturalmente in tutte è presente e ribadita la mancanza dolorosa delle relazioni, il restringimento nei propri confini, il non poter abbracciare, toccare i corpi, frequentare la città. Ma emerge anche in qualche testimonianza una sorta di contraddizione: si soffre per la mancanza, ma contemporaneamente “gli altri ci mancano, ma nello stesso tempo ci danno fastidio, siamo meno pazienti, credo sia perché abbiamo meno cose da dirci, nessuno fa niente, il panorama si è ristretto”. Nostalgia degli altri, ma nello stesso tempo una sorta di percezione della loro irrilevanza, desiderio degli abbracci e del contatto con il corpo dell’altro e nello stesso tempo quasi la percezione di una difficoltà, anche quando fosse concesso, di abbandonarsi al contatto (“riuscirò ancora a stringere la mano, ad abbracciare?”).
Non solo gli altri, ma tutto il mondo esterno, come una afferma: “poco tempo e voglia di relazionarmi, fastidio per il telefono, per il pc, persino per la televisione”. Per molte la mancanza di rapporti ravvicinati viene vissuta più intensamente, più dolorosamente, ma c’è anche chi entra più pacatamente in questa nuova condizione, affidandosi alla tecnologia (“che, da questo punto di vista è una gran fortuna”): gli altri non sono presenti con il loro corpi, ma si vedono attraverso lo schermo, si sentono le voci e sembra essere sufficiente, persino “una giusta misura”. Perché consente più tempo per sé, persino più consapevolezza (“non mi dispiace questa sosta forzata e piena di paura e attesa come un tempo utile a fare chiarezza dentro di noi”). Emerge quindi il grande tema del “trovare sé stessi”, presente ovunque nella pubblicistica, e anche qui in queste testimonianze. Il desiderio di considerare questo tempo “come un tempo utile a fare chiarezza dentro di noi”. A volte questa ricerca di trovare l’Altro non da sé, ma di sé presenta delle sorprese non gradite, come sottolinea Altan in una sua vignetta: “il lockdown mi ha fatto riscoprire me stesso. Mi sono tolto il saluto”. Forse si può non togliersi il saluto, ma si può riflettere su mancanze, disattenzioni, trascuratezze su cui il corso della vita solcato da presenze, impegni, lavori aveva impedito di soffermarsi. E anche questo, pur se doloroso, può essere un momento salvifico. Insomma, da qualsiasi prospettiva lo si guardi, il ritiro, il silenzio, l’attenzione trasformano, si presentano come un cambiamento. Non saremo più come prima. Persino nell’aspetto fisico, come rileva persino con divertimento, una testimonianza sulla propria capigliatura, diventata, per assenza di parrucchiere, completamente bianca “la cosa buffa non è il bianco dei capelli, ma il fatto che non mi riconosco più, vedo una persona che non riconosco”.
Un’ultima annotazione: abbiamo già rilevato l’importanza del lavoro come una delle strategie messe in atto per affrontare il tempo sospeso. Può essere certamente un lavoro che prosegue nella continuità con il “prima”, seppure con altre modalità. Ma c’è di più: c’è il riconoscimento dell’importanza di un progetto, di un progetto per sé (“ho scoperto l’importanza del seminare, anzi se l’hai fatto in passato molto meglio perché ti ritrovi con un sacco di interessi, dall’arte, alla musica, alla pittura, al giardinaggio: mi piace guardare a questo secondo lockdown nell’ottica di scoperta”) e di un progetto per altri (“spero di essere utile alle persone” “occupandomi delle difficoltà degli altri sento di esserci”)
Insomma, un quadro composito, fatto di luci e ombre, anche di contraddizioni, ma crediamo utile per farci capire le diversità degli approcci, le difficoltà che si presentano con diversa intensità. I dolori, anche qualche gioia- E farci capire anche la inutilità, persino la stupidità di un pensiero “unico”, che parte solo dalla propria esperienza e non presta attenzione ad altri percorsi. Non so se diventeremo migliori, non lo credo, ma forse un po’ di guadagno può esserci nel mare delle perdite: una maggiore consapevolezza.
Scoperte, Solitudine, Tempo, Incertezza
S come scoperte
Si parla molto di scoperte: un’occasione di ritrovarsi in una situazione impensabile prima e usarla per indagare sé stesse. Le scoperte di sé sono tante e forse anche involontarie o frutto delle strategie messe in campo per resistere alla situazione. Le scoperte sono in genere positive perché fanno emergere la capacità di adattamento, la capacità di organizzarsi, la capacità di trarre vantaggio da un drammatico imprevisto. Il vantaggio è quello innanzitutto di scoprirsi capaci di non lasciarsi andare alla disperazione, di non essere sommerse dalla paura, di gestire pragmaticamente le mancanze di contatti; forse questo tipo di donne sapevano già che non sarebbero andate alla deriva o che non si sarebbero autorizzate a farlo.
S come solitudine
Tra le scoperte poi c’è la gestione della solitudine che poiché è imposta a tutti, sembra non pesare, perché è l’arma contro il virus. Forse la solitudine non era mai stata vissuta in modo così definitivo e intenso, anche se alleggerita dai contatti telefonici e on line, ma questa solitudine è una misura sanitaria e non viene percepita come un abbandono.
T come Tempo
Io lotto contro il tempo, o meglio contro la mancanza di tempo. Immaginavo di avere un tempo infinito per ascoltare musica, leggere, scrivere, cucire (mi piace molto), invece sono mesi che sono in casa e il tempo continua a mancarmi; i confinamenti non hanno colmato quei desideri che inseguo da sempre e che negli ultimi anni sono diventati più intensi.