Ciò di cui voglio parlare è la relazione con i miei pazienti che ho continuato a intrattenere nel periodo del confinamento causa corona virus; una relazione “da remoto”, che mi ha permesso anche l’osservazione di me stessa e dei miei stati d’animo. Vorrei ripercorrere con voi le reazioni psicologiche alle diverse fasi (non mi riferisco a quelle “governative”, ma a quelle soggettive!) che, in maniera convulsa, si sono succedute da febbraio a oggi da parte delle persone (politici e scienziati compresi!), ma anche della collettività che ha rivestito, e ancora riveste, una grande funzione di risonanza emotiva, come se, all’improvviso, ci fossimo resi conto che siamo tutti sulla stessa barca…o, meglio, sullo stesso pianeta…In effetti, quando succede qualcosa che rompe il nostro stato di sicurezza, internamente, il nostro Apparato Psichico mobilita delle difese allo scopo di ripristinarlo: se le nostre difese funzionano, per così dire, bene, ci fanno un buon servizio e ci consentono di ripristinare la nostra sicurezza a un livello più maturo e adeguato, ma non sempre e non subito è così… Ad es.: credo che la prima reazione emotiva che ci ha pervaso sia stata l’incredulità: si trattava di una cosa troppo grande, sconosciuta e spaventosa, perché la nostra mente potesse contenerla e tradurla in un esame di realtà, ovvero molti di noi hanno inconsapevolmente utilizzato (e ahimè ancora utilizzano!) il meccanismo di difesa della negazione. Gli esempi si sprecano: “è una banale influenza”, “riguarda solo i cinesi”, “riguarda solo gli anziani”, “passa tutto con l’arrivo del caldo”, ecc. Ma l’ampliarsi drammatico dell’epidemia, i primi, tanti lutti e la chiusura delle attività lavorative ci hanno costretto a un doloroso esame di realtà…e così ci ha pervaso la paura, una sensazione terribile di spaesamento che ci ha fatto chiudere in casa per sentirci al sicuro, affacciandoci alle finestre per cantare l’Inno di Mameli, invocando chi la Madrepatria, chi il Padreterno, chi la Madre terra, chiamando “eroi” i medici, gli infermieri e i volontari in prima linea nella “guerra” al virus… Ovvero: come bambini, smarriti e impotenti, abbiamo reagito con il meccanismo di difesa della regressione, alla ricerca di un’istanza buona e miracolosa che ci avrebbe restituito la sicurezza perduta.
Questa regressione ha poi imboccato strade diverse da persona a persona, da momento a momento:
-talora abbiamo reagito riscoprendo il calore della famiglia, un nido in cui sentirci al sicuro (vedi ad esempio chi si è dato tanto da fare in cucina per consolarsi con qualcosa di buono…);
-talora abbiamo, per così dire, curato il senso di impotenza con attività di volontariato o, semplicemente, scambiando gentilezze con i vicini di casa in difficoltà;
-talora abbiamo imboccato la deriva depressiva e abbiamo avuto la brutta sensazione di dover gettare la spugna;
-talora abbiamo imboccato la deriva persecutoria alla ricerca del”Colpevole”di tutto questo (vedi l’antico “dalli all’untore”di manzoniana memoria!), individuandolo, di volta in volta, nei cinesi, nel politico di turno, nelle case farmaceutiche, in quelli che si avvicinano troppo, ecc. (mi viene in mente quel condominio in rivolta causa la vicina di casa che era infermiera: “eroina” e , al tempo stesso, “untore”).
Ora è arrivata la fase 2 che, con il conforto del miglioramento dei dati epidemiologici, ci obbliga alla necessaria, ma anche desiderata “ripartenza”: questo rende ancor più necessario l’esame di realtà, ma la inevitabile constatazione che non ci sarà la tanto attesa soluzione immediata e miracolosa e la conseguente, dolorosa, disillusione, rischia di intensificare angosce e paure che rendono ancor più difficile l’assunzione delle piccole, ma grandi responsabilità che ci attendono. Ovvero: ora dobbiamo uscire dalle regressioni e dobbiamo “crescere” e non si tratterà di una crescita senza ostacoli e difficoltà, se pensiamo non solo alla minaccia del virus, ma anche alle difficoltà economiche, alle tante povertà che incombono, alle molte persone che hanno perso il lavoro e altre addirittura la vita. Ma dovremo farlo per consentire a noi stessi di coltivare la speranza, restando con i piedi per terra. Non posso concludere, senza dire qualcosa sui tanti lutti, specie di persone anziane che, in maniera più o meno diretta ci hanno coinvolto, lutti che non hanno potuto trovare neppure il conforto del commiato, della vicinanza, neppure nel rito del funerale (rito di passaggio…). Lo farò parlandovi di un’esperienza che mi sta molto a cuore: da molti anni, dal 2004, seguo un gruppo di familiari di malati di Demenze Senili; si tratta di un gruppo “semiaperto”, composto al massimo da 12 familiari che da qualche anno si ritrova quindicinalmente presso la Residenza Vittoria, una RSA di Brescia, dal 2004 hanno fruito del gruppo circa 150 familiari. Nel gruppo ci interroghiamo sul come si può sentire una persona affetta da Demenza, cerchiamo di dare un senso ai suoi comportamenti “strani”, alle sue “dimenticanze”, perché il danno a livello cerebrale comporta non solo alterazioni significative al suo senso di identità, ma induce pian piano anche i familiari a sentire “che non è più la stessa persona” e così la paura, il disorientamento colpiscono anche loro; si rompono importanti equilibri personali che incidono sulla stabilità delle relazioni familiari, perché la malattia, attaccandone le caratteristiche più mature, provoca il dilagare degli aspetti più regressivi, della confusione e dell’angoscia. Tra l’altro, chi presta assistenza all’anziano demente è spesso il coniuge, anche lui/lei anziano/a, o un figlio, più spesso una figlia, a loro volta in un’età particolare, quella involutiva del climaterio che molti studi hanno evidenziato come la più a rischio per la depressione. Queste condizioni spesso non permettono di mobilitare all’interno della famiglia tutte le risorse necessarie per far fronte con lucidità e serenità ai molti problemi che la malattia pone nelle sue diverse fasi. Per questo il gruppo si propone di costituire un buon punto di riferimento per i familiari, consentendo loro un’esperienza di appartenenza che allevia il dolore, la solitudine, i sensi di colpa e di impotenza e costituisce un aiuto prezioso nell’affrontare con più lucidità e adeguatezza i momenti difficili e le scelte dolorose, fino alla morte del malato, ricercando “il senso perduto”nel rapporto, attraverso la considerazione attenta e rispettosa delle persone, della loro storia e della loro soggettività. Attualmente il gruppo è composto da 8 figlie, 2 figli e 2 mogli; alcuni convivono con il malato, altri l’hanno ricoverato in diverse RSA di Brescia, altri ancora fruiscono di Centri Diurni o di gruppi di volontariato e altri dell’aiuto di badanti. È in questo contesto che ha fatto irruzione il virus!!!Già all’inizio di febbraio era morta la madre di Carla, ricoverata da poco in una RSA a causa dell’aggravarsi del Parkinson e del decadimento cognitivo. Non sappiamo se sia morta a causa del virus… La scelta di ricoverare in RSA il proprio familiare malato risulta sempre difficile e dolorosa, carica com’è di sensi di colpa e di inadeguatezza; se a questo fa seguito a breve la morte, per giunta col sospetto del contagio, vi lascio immaginare quale senso di prostrazione abbia colto Carla…Poi le RSA hanno, giustamente, chiuso le porte ed anche la nostra sede presso la Residenza Vittoria è stata chiusa…
SMARRIMENTO….
Così abbiamo deciso che non poteva venir meno il riferimento del gruppo, e se pur “da remoto”, ci riuniamo settimanalmente con Skype. Purtroppo, non tutti hanno dimestichezza col computer e ci mancano…-penso a Grazia e Paola che si prendono cura quotidianamente dei loro mariti malati…Erano riuscite ad alleviare la loro fatica e il senso di solitudine e abbandono appoggiandosi anche a gruppi di volontariato, permettendo a loro stesse un po’ di tregua e ai loro mariti malati di godere lì di importanti momenti di socialità e che ora sono costrette in casa ad occuparsi di loro 24h al giorno…-penso ai familiari con il loro malato ricoverato in RSA che non hanno più potuto recarsi a visitarlo con il terrore del contagio incombente: ad es. a Roberta che, dopo tanti ripensamenti, un anno fa ha deciso il ricovero del padre, ora risultato positivo al virus. Roberta ha il marito cardiopatico ed è terrorizzata al pensiero di contagiarlo, ma è anche angosciata al pensiero che il padre si senta abbandonato là. Trova conforto nelle videochiamate che gli operatori le fanno quotidianamente per rassicurarla che il padre sta, tutto sommato, bene. E’molto grata a questi operatori che le consentono di mantenere un filo col padre. Penso ad Angelo che invece non sopporta queste videochiamate, perché la madre non lo riconosce più….o ancora a Teresa che si reca ogni santo giorno davanti alla RSA dove è ricoverato il padre perché un operatore glielo mostri dal balcone, ma il padre non sempre la riconosce e si ritira in fretta…Penso a Mario, figlio unico, che lavora a Brescia, la cui madre malata abita in un’altra Regione affidata a una badante. Mario si sobbarcava, più volte durante la settimana, viaggi estenuanti per andarla a trovare. Ora si ritrova davanti il rischio del contagio per sé e per sua madre, se dà retta al suo impulso di andarla a trovare… Penso ad Anna che non sa se essere più preoccupata per il padre molto anziano o per la madre in uno stadio avanzato della Demenza, completamente non autosufficiente…Mi sono chiesta più volte quale funzione possa rivestire il gruppo in questo clima concitato, di paura, di lutti incombenti, dove, paradossalmente, la vicinanza ai propri familiari malati, così fragili e bisognosi, può essere solo data dal distanziamento…. Eppure sembra che il ritrovarsi, se pur “da remoto”, stia molto a cuore a tutti… Credo che in questo momento “la medicina” che funziona di più sia costituita dal senso di appartenenza, dal rispecchiamento reciproco, dalla vicinanza che rassicura e che fa sentire meno soli….Forse questa è la condizione che pian piano potrà alleggerire ed aiutare a elaborare il dolore delle separazioni e dei lutti…Vorrei concludere citando una frase di Simone de Beauvoir: è datata 1970, ma la sento molto attuale:
“Nell’avvenire che ci aspetta è in gioco il senso della nostra vita; non sappiamo chi siamo, se ignoriamo ciò che saremo, dobbiamo riconoscerci in quel vecchio, in quella vecchia; è necessario se vogliamo assumere nella sua totalità la nostra condizione umana”.
Rosa Della Bona – Relazione tenuta al Rotary Brescia-Manerbio 29.5.2020