Non è ancora chiaro quanto durerà questa fase liminale e cosa e quanto realmente cambierà ma quello che è sicuro è che ci ritroviamo improvvisamente in una situazione che ha messo in discussione molto di quello che abbiamo a lungo dato per scontato. Si è aperto improvvisamente uno spazio inedito alla creatività politica, alla costruzione di nuovi temi per l’agenda politica. Il mondo pre- COVID-19 inghiottito da sovranismi e inerzie neo-liberali da there is no alternative è sbandato improvvisamente. Sta tentando di rientrare in carreggiata ma ‘tornare a una normalità che ha al suo interno le cause e le concause di questa tragedia sarebbe un suicidio collettivo’. Si parla spesso di COVID-19 come di una guerra e allora ricordiamoci che il dopoguerra è rimasto alla storia come periodo glorioso non certo perché tutto è tornato al 1939, come ci ha recentemente ricordato Zadie Smith! Ma perché, per esempio, in Italia ha saputo generare la Costituzione democratica dopo vent’anni di fascismo. Ora serve coraggio e capacità di lotta politica e, perciò, non è certo il momento di criticare la globalizzazione al fine di riaprire le porte, se mai fosse possibile, al piccolo mondo antico, o alla triade Dio, patria, famiglia. Serve, invece, costruire un nuovo futuro senza rimpiangere paradisi perduti mai esistiti. La pandemia è l’occasione (triste, tristissima) per vedere meglio alcuni disequilibri fondamentali del nostro sistema sociale, che in molte occasioni ci siamo rifiutati di guardare con attenzione. Con questo contributo se ne individuano ben dieci, profondamente intrecciati tra loro. Dieci focus tematici che sono fondamentali arene di trasformazione sociale e politica. In primis il tema delle disuguaglianze sociali ed economiche e della cinica tendenza a nasconderle sotto un velo di presunta neutralità. Siamo tutti (stati) a casa per molte settimane ma in alcuni casi ci siamo ritrovati in prigioni dorate o almeno confortevoli, in altri in mezzo a un incubo quotidiano (tralasciando ovviamente chi non ha neppure quell’incubo perché vive in strada).
Siamo (stati) per molto tempo senza il nostro luogo di lavoro ma per alcuni non poter andare a lavorare ha significato ritrovare tempo per sé, per altri lavorare a distanza in condizioni più o meno agevoli, per altri ancora ha significato improvvisamente non avere più una fonte di guadagno. Le nostre società sono attraversate da disuguaglianze profonde che COVID-19 sta evidenziando e potenzialmente amplificando. Non siamo tutti nella stessa barca; ci sono barche di serie a e barche di carta e se parliamo di politiche pubbliche, di soluzioni collettive, dobbiamo partire da chi si trova nelle condizioni di partenza peggiori, serve cioè dare voce e risposte alle nuove e vecchie marginalità, secondo il fatidico secondo comma dell’art. 3 della nostra Costituzione. Su questo fronte, in questa fase, uno degli attori più lucidi e incisivi sembra essere il Forum Disuguaglianze e Diversità che propone un’agenda concreta incentrata su parole considerate a lungo vintage come povertà e giustizia sociale; In secondo luogo attraverso quest’emergenza è emerso in modo sempre più evidente come i danni irreversibili provocati dall’inquinamento abbiano conseguenze gravissime sulle nostre vite già da oggi.
L’aria che quotidianamente noi respiriamo e che improvvisamente oggi ci fa paura per la possibile presenza di SARS-CoV-2, quando finirà questa emergenza sarà sempre un’aria che aumenta la possibilità di ammalarsi gravemente di patologie respiratorie. Si parla impropriamente dell’inquinamento come minaccia per il pianeta ma in realtà quest’ultimo (con qualche starnuto o proprio con qualche virus) ritroverà in poco tempo i suoi – magari differenti – equilibri; l’inquinamento non è una minaccia per il pianeta Terra ma un veleno (o se preferite un virus) per noi, che limita le possibilità di vita degli esseri umani su questo pianeta e lo fa oggi con COVID-19 e ieri e domani sotto tante altre forme; ovviamente, come con COVID-19, abbiamo mezzi, seppur radicali, per impedire o limitare tutto ciò; L’attuale pandemia ha improvvisamente interrotto e messo in crisi un certo tipo di globalizzazione frenetica, incentrato su una mobilità bulimica e parossistica sempre più insostenibile, di cui alcuni tipi di turismo ne sono solo l’esempio più paradigmatico (per un discorso più articolato e sfaccettato sul tema del turismo rimando all’ultimo volume di Marco d’Eramo). “Risparmiare spostamenti” torna ad essere un potenziale valore, come nella recente ‘Strategia di adattamento’ del Comune di Milano. Costruire un rapporto con il territorio meno incentrato sulla velocità dell’usa e getta e più sulla cura delle relazioni e dei luoghi non va ovviamente confuso con sovranismi o autarchie locali. Bisogna infatti evitare di cadere nell’errore opposto, cioè quello della trappola locale. Perché i luoghi si sono sempre nutriti e profondamente arricchiti dai contatti con l’esterno. E, come le persone che li abitano, si sono sempre impoveriti dalla mera chiusura in sé stessi; COVID-19 ha fatto emergere in modo evidente come uno dei bias più tragici della sanità lombarda, così potentemente colpita dalla pandemia, sia stata la centralizzazione dei servizi e l’impoverimento dei presidi sanitari territoriali perché, com’è stato più volte ripetuto, le battaglie per la salute non si vincono negli ospedali (grandi o piccoli che siano) ma con l’integrazione socio-sanitaria e i servizi di prossimità e, più in generale, organizzando e rinforzando i territori, rafforzando la prevenzione e la promozione della salute: è il cosiddetto approccio interdisciplinare urban health che punta sulla cura e infrastrutturazione dei luoghi, sul rafforzamento delle reti locali e dei corpi intermedi, sulla valorizzazione delle intelligenze territoriali e del capitale spaziale e territoriale diffuso; Un’ulteriore elemento emerso in modo evidente in questa emergenza pandemica è l’importanza dei luoghi e dei contesti e la necessità di politiche attente alle differenze e specificità territoriali. Il tradizionale approccio a-spaziale, sotto la retorica del neutralismo tecnico, induce ad evitare di pensare a misure mirate per specifici territori e tessuti urbani. E’, invece, sempre più chiaro come politiche efficaci debbano avere cornici forti, giuste e solidali ma che vadano poi contestualizzate e rese concrete in maniera differenziata nei differenti territori, come cioè non si possano imporre un paio di scarpe della stessa misura per tutti i piedi. È il fondamentale principio della contestualità; La crisi pandemica ha riportato al centro anche il tema delle cosiddette aree interne, i territori dell’Italia minore spesso dimenticati dove abitano più della metà degli italiani. Dopo decenni in cui le aree interne sono state liquidate dalle politiche e dal discorso pubblico come territori arretrati e zavorre del mondo post-moderno, ora improvvisamente sono evocate come possibile soluzione a tutti i problemi. È il solito sguardo un po’ ‘colonialista’ dall’esterno che proietta le proprie paure e/o i propri desideri e dipinge i piccoli centri di volta in volta come covi di bifolchi trinaciuti o come piccolo mondo antico pre-moderno, privo di conflitti e problemi. Le aree interne sono, invece, una realtà eterogenea formata da un insieme di differenti ruralità e differenti urbanità e sono generalmente contesti profondamente urbanizzati, sia nelle pratiche che nell’immaginario, in cui operano da decenni trasformazioni significative; sono il perno del paese sotto il profilo ecologico, demografico e in una parte non irrilevante dei casi anche economico e persino culturale (su questo si vedano alcune interessanti esperienze di rigenerazione urbana dove la dimensione territoriale e spaziale gioca un ruolo attivo e inedito). La consapevolezza di tutto ciò dovrebbe quindi ispirare una politica di sviluppo che sappia superare la dicotomia urbano-rurale e che riconosca e promuova le interconnessioni virtuose fra tutti i diversi tipi di territori; Dopo una secolare fase di crescente hybris fondata su intolleranza ai limiti, sulla rimozione della mortalità (e profonda solitudine) la pandemia ha riportato almeno momentaneamente al centro tutta la nostra natura corporea e materiale, la fragilità e precarietà della condizione umana. D’improvviso ci ritroviamo tutti insieme in balia di rischi che non possiamo controllare se non minimamente. Addirittura siamo noi il potenziale pericolo. Questa fragilità ha indebolito il progetto individualista neo-liberale perché sapere di essere tutti esposti alla caduta ci induce a ricercare un noi (Europa, Stato-nazione, Regione, Comune, quartiere, ecc.) che rafforzi la capacità di garantire risposte a tutti. Nessuno si salva da solo. Il neoliberismo e le privatizzazioni (es. in campo sanitario) d’improvviso sono nudi in tutta la loro incapacità di dare risposte eque e non determinate solo dal potere d’acquisto/di mercato. L’orizzonte pubblico e collettivo torna ad attrarre consensi, la capacità del welfare state di incidere profondamente sulla felicità e sul soddisfacimento dei bisogni ritorna prepotentemente nell’agenda politica; La Pandemia ha riportato al centro il fatto che il nostro io negli spazi di comfort e di rifugio della propria casa e famiglia può sopravvivere ma progressivamente si indebolisce, ‘impazzisce’ e si svuota di senso. Siamo animali sociali e questo bisogno di socialità si è espresso durante il lockdown negli scambi di socialità rubata attraverso balconi, terrazzi, cortili e giardini, nella riscoperta dei rapporti di vicinato anche condominiali, nella ritrovata centralità dei negozi di prossimità. Gli spazi di incontro, quelli che Oldenburg chiama terzi luoghi per distinguerli dalla casa e dai luoghi di lavoro, sono fondamentali per costruire legami deboli, fare esperienze con la diversità, per produrre innovazione (quanti progetti sono nati al bar!). La consapevolezza di tutto ciò avviene proprio nel momento in cui i tradizionali spazi pubblici e di interazione sociale più aperti e informali sono sotto attacco dalle misure anti-COVID-19; spazi che peraltro ben prima della pandemia avevano subito un costante processo di privatizzazione, recinzione, sanificazione. Il tema degli spazi pubblici e di quelli culturali, però, giocherà a breve un ruolo centrale. Nella riprogettazione e nella governance di questi luoghi sarà determinante capire se prevarrà il plexiglass e la distanza sociale e dunque si accelererà l’individualizzazione dello spazio e la paura dell’altro, o se si avrà la capacità di aprire una fase di forte creatività orientata al sociale, se riusciremo, cioè, a trovare forme creative per usare meglio gli spazi all’aperto e per riusare i tanti grandi spazi al chiuso da rigenerare per ridare forza ai cosiddetti legami deboli e imprevisti, che sono la vera occasione di incontro e scoperta (anche di sé); per fare in modo di rispettare il distanziamento fisico senza produrre distanziamento sociale (su questo fronte significativo è il contributo di Filippo Celata).
La pandemia ha rimesso al centro l’importanza pragmatica della conoscenza: stiamo assistendo, infatti, al tentativo collettivo forse più esteso e inteso della storia di comprensione di un nuovo ‘oggetto’; una comprensione che è tutta nell’agire, pratica perché oggi dobbiamo accrescere le nostre competenze e oggi dobbiamo metterle in pratica. Abbiamo capito che la scienza e la ricerca scientifica possono aiutarci ad essere più consapevoli dei problemi e delle soluzioni ma allo stesso tempo che il processo di acquisizione di conoscenza scientifica è precario, conflittuale e incrementale (non abbiamo verità pronte ad aspettarci ma conoscenze parziali che progressivamente ci aiutano a ridurre l’opacità dei fenomeni; non esiste, cioè, una scienza che possiede e impone Verità assolute, anche se alcuni come recentemente il Ministro Boccia non sembrano averlo compreso). Non sono certo venuti meno complottismi e credenze pseudo-scientifiche un tanto al kilo ma sembra che non riescano più a dominare il dibattito, sembra di vedere che nella sfera pubblica ci sia meno spazio per la ‘fuffa’ e per le retoriche vuote, troppo sganciate dal reale; che l’agenda pubblica, almeno in questa fase, sia diventata di colpo più concreta e più ‘alta’ (non era difficile) e, pur con tutti i suoi limiti, si orienti finalmente sugli elementi veramente importanti e vitali del nostro sistema sociale; Da ultimo, la pandemia ci sta portando a ripensare la scuola. Abbiamo capito che alcune delle nostre attività possono essere erogate online anche con notevoli vantaggi, in particolare per l’alta formazione, ma questo successo è stato amplificato dal fatto che molta della nostra didattica com’era svolta prima era già insensibile allo spazio. Per decenni abbiamo infatti costruito servizi educativi (e non solo) incapaci di riconoscere la centralità degli spazi materiali e dei territori. Ora abbiamo la grande occasione per un tipo di rivoluzione opposta: non a-spaziale ma iper-spaziale. Lasciamoci ispirare dall’etimologia: educazione deriva dal latino educere (da ex, “fuori”, più ducere, “condurre”), perché l’educazione era una questione di condurre gli studenti nel mondo piuttosto che, come troppo spesso oggi, l’istituzione che rinchiude gli studenti in angusti spazi ristretti, fortemente disciplinati. E’ il momento di spingere per una scuola aperta e diffusa, orientata ad agire in piazze, giardini, parchi, spazi sportivi e spazi culturali; una scuola capace di diventare un attore fondamentale delle nostre città e dei nostri quartieri. Una scuola capace di organizzare lo spazio come strumento pedagogico di stimolo e di attivazione (su questo non mancano certo buone pratiche, dal mondo montessoriano ai lavori di Van Eyck).
In conclusione, possiamo dire che se è impossibile capire come sarà il mondo post-COVID-19 è sin d’ora evidente che abbiamo davanti a noi dei campi di lotta fondamentali in cui si può tornare a immaginare una radicalità che non sia più solo sovranista e escludente. Tocca a tutti individualmente e soprattutto nelle rispettive organizzazioni cogliere questa fase liminare, di passaggio, di profonda messa in discussione per scegliere l’orizzonte verso cui direzionare le proprie energie e priorità e tentare di orientare il cambiamento
Adriano Cancellieri – sociologo urbano IUAV Venezia