Una voce fuori dal coro: ma se la resilienza fosse solo un modo per “tagliare le ali” alla protesta?
Il termine “resilienza” è una presenza costante negli articoli, nei confronti, nei talk ed anche nelle novità legislative degli ultimi anni. Succedeva anche prima della pandemia, ma con la pandemia la “resilienza” ha invaso tutto con i concetti che la compongono: il coraggio, la resistenza, la tenacia, la fiducia in un mondo migliore. Siamo tutti invitati a rafforzare la nostra “resilienza” davanti al covid, davanti al disastro climatico, davanti al terrorismo per citare alcune delle tragedie attuali.
Una voce fuori dal coro è quella di Thierry Ribault che 10 anni dopo l’incidente nucleare di Fukushima fa uscire il suo libro “Contro la resilienza”, una critica radicale ad un concetto che lui descrive come un’ideologia dell’adattamento ed una tecnologia del consenso che spinge verso l’accettazione di un disastro, senza interrogarsi sulle cause.
La resilienza trae la sua forza dal fatto di essere indiscutibile perché si pone come premessa alla soluzione di tutti i mali, spingendoci ad esplorare tutti i modi possibili di piegarci senza romperci, di conformarci al nostro ambiente e di rafforzarci nel provarci: resistere senza opporre resistenza e accettare di vivere nella società del disastro, benedicendola perché ci rende più forti nel sopportare. Questo è il modus operandi della resilienza secondo Ribault.
Pensare al peggio, per stimolare le nostre capacità “anti fragilità” rappresenta la forza interiore che ci permette di anticipare le catastrofi e di accettarne l’ineluttabilità per poter andare avanti, ma la resilienza ci vuole preparare al peggio senza mai chiarire le cause. Ciò conduce a interiorizzare la minaccia e a trasformare la realtà fisica e sociale del disastro in una necessità alla quale non ci si può sottrarre. Questa politica di resilienza ha tutti i tratti di una implacabile e disumana ingegneria del consenso ed è questa la ragione per cui i dibattiti si dirigono verso la sua modalità di realizzazione e non già sul suo carattere ideologico.
La resilienza è una tecnologia del consenso che ha lo scopo di portare le popolazioni in situazioni di disastro a non mettere in discussione il sistema, compresa la tecnologia della sopravvivenza e di sottomissione della natura, per rimediare ai guai da lei stessa perpetrati. Rende emotivamente gestibile ciò che è terrificante, invitandoci a prepararci alle catastrofi del futuro e insistendo sulle nostre capacità di costruire il “mondo del domani che è già qui”. Ognuno di noi deve essere un cittadino consumatore e attore del cambiamento, cambiare “imperativamente mentalità”, modo di vivere e di agire. Questo nuovo approccio verso i disastri rappresenta una sorta di “Do it yourself”: un fai da te in tempi di catastrofe. Terapia per ogni tipo di dolore o esperienza dolorosa che siamo tenuti a sopportare, trovando loro un senso.
Davanti alla pandemia, agli attentati terroristici, alle catastrofi ambientali, si moltiplicano le esortazioni del “dobbiamo conviverci per preparare il mondo di domani”. Adattarsi a ogni forma di sacrificio senza discutere, perché con la pretesa di risolvere, la resilienza si impegna a assolvere gli uni e colpevolizzare gli altri, quelli che si rifiutano di collaborare per costruire in questo modo, il mondo di domani. Dal momento in cui la catastrofe diventa soggettiva la questione è da regolare solo con sé stessi, una spinta ad agire senza chiedersi mai se ciò che ci aspetta non è peggio di quanto abbiamo passato: una vittoria sulla paura allo scopo di annientare la minaccia che l’ha fatta nascere. Si tratta di combattere il covid, il cancro, il terrorismo, il disastro climatico senza mai combattere il sistema che li ha fatti nascere. Perché la resilienza guarda solo al futuro. La domanda è come la sfortuna di oggi può portarci alla felicità di domani? Questo liquidare il passato e il presente impedisce ai popoli di prendere coscienza della loro situazione e di ribellarsi.
A Fukushima hanno nominato un ministro per la grande resilienza nazionale, perché la politica non insegna più a gestire l’ansia e non indaga sulle ragioni di una catastrofe … sono tratti caratteriali del disadattato: al contrario la paura è un segno di libertà e di verità, un momento indispensabile per prendere coscienza delle cause che ce la fanno provare. Poiché si tratta di un effetto della catastrofe e non una conseguenza, contrariamente a quanto dice la terapia della resilienza che colpevolizza le vittime della paura e sollecita il superamento della paura stessa. Dobbiamo invece imparare ad ascoltare di più la nostra infelicità, uscendo dalla pretesa, compreso quella tecnologica, di saper rispondere a tutte le situazioni impossibili: si tratta di prendere coscienza dell’impotenza e delle sue cause. Il resto si vedrà.