Il grande carro
Magia. Intimo e minimale il Cinema cinefilo di Philippe Garrel è per pochi fortunati, che lo seguono e amano da una vita ,come me. Ti porta in una dimensione lontana da ciò che trovi all’uscita del Cinema. Non in una irrealtà, ma in una sua sintesi emotiva e sentimentale del vivere, depurata dalla corsa alla modernità e ai suoi disvalori. Nel suo ultimo film, di una bellezza abbagliante premiato a Berlino con l’Orso d’Argento per la miglior regia, ci porta addirittura nel mondo delle marionette attraverso la storia di una famiglia di burattinai. In totale controtendenza col nostro mondo virtuale proiettato verso l’intelligenza artificiale, ecco la concretezza di pupazzi di legno animati da esseri umani, che conferiscono loro anima attraverso le loro anime. Che, nel film, sono unite dal legame di sangue così come nella realtà, avendo Garrel chiamato a raccolta i suoi tre figli: Louis, Esther e Lena. Affiancati nel ruolo del padre dal magnifico Aurelien Rocoing di “L’Emploi du temps” di Laurent Cantet e dalla veterana Francine Bergé nel ruolo della nonna indomita pasionaria di sinistra contraria ad ogni religione. “Il grande carro” è quindi un vero film di famiglia, testamentario nel senso di lasciare che i figli, attraverso i loro personaggi e viceversa, trovino la loro strada, anche diversa da quella dei padri forse giunta alla meta. E nel rapporto padre figli, nonostante il rigore verso il sottotono di Garrel, profondamente e potentemente shakespeariano con richiami a “Re Lear” e persino ad “Amleto” nel sogno di Martha, oniricamente visitata in sogno dal padre dopo la morte. Morte che aleggia in due funerali, segnando il passaggio di un’epoca che forse non tornerà più. Ma insieme alla follia del vivere incarnata da Peter (il bravo Daniel Mongin) c’è anche la consueta ronde di amori garreliana, fatta di tutto e di niente, di trovarsi e lasciarsi, di desiderio e sfide. Sceneggiato anche col maestro Jean-Claude Carriere prima della sua scomparsa e con Arlette Langman fedelissima a Maurice Pialat, ” Il grande carro” e’ un gioiello di scrittura in ogni dettaglio, in ogni parola e in ogni sguardo, colto dai toni e dal taglio sublime della fotografia di Renato Bertavosodo” di Paolo Virzi’ a Livorno, “I primi della lista” di Roan Johnson a Pisa e ora “Margini” di Niccolò Falsetti a Grosseto. Un Cinetoscana tour giovanilista e nostalgico, accomunato da una memoria ribelle, che in “Margini” è addirittura quella della cultura punk, che dalla Londra dei Sex Pistol (all’epoca oltraggiarono la Regina e ora si riconciliano) arriva alla provincia italiana, ruspante e aspra come quella maremmana. Michele, Jacopo ed Edoardo (Francesco Turbanti pure co-sceneggiatore, Matteo Creatini, Emanuele Linfatti) sono i componenti di una street punk hardcore band un po’ sfigata, ma piena di passione e vita. Siamo nel 2008, si esibiscono ai Festival dell’Unità, alle sagre di paese e dove capita, non importa. Resistono a tutto: mancanza di soldi, atmosfera iperprovinciale e perbenista, sfottò delle pubbliche amministrazioni che gli propongono i centri anziani e le parrocchie. Finché la svolta: far venire a Grosseto i mitici Defense, re del punk d’oltreoceano. Sognare è anche realizzare e il trio fa approdare i Defense, dopo che Michele si è indebitato, Eduardo (i cui postgenitori sono i bravissimi Edoardo Rignanese e Valentina Carnelutti) si è fatto cacciare di casa, Jacopo si è fatto semi licenziare da un tour con Barenboim. La moglie di Michele è Silvia D’Amico sempre fantastica, tenera, svagata come una post Vitti. Fa la cassiera al supermercato, si vede prosciugare il conto dal marito sbarellato eppure lo perdona. In questa nota, sentimentale e centratissima, sta il cuore ribelle di un film anarchico e folle, dal grande cuore. Capace di ritrarre il desiderio di volare contro tutti gli ostacoli, dominati da quella passione che si chiama vita. Settimana Internazionale della Critica di Venezia. Ora al Cinema
di Carlo Confalonieri