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Il biasimo delle donne

La satira sul genere femminile affonda le sue radici fin dal sesto secolo a.C. con il componimento satirico Il biasimo delle donne, conosciuto anche come Giambo sulle donne, scritto in greco antico da Semonide di Amorgo. Il componimento si basa sull’idea che Zeus abbia creato l’uomo e la donna in modo differente, e più specificatamente, che abbia plasmato dieci tipi diversi di donne basandosi su differenti specie di animali.

Nel frammento vengono descritti dieci tipi diversi di figura di donna, tra i quali nove sono additati come nocivi: la donna sporca deriva dal maiale, la donna astuta viene dalla volpe, la donna incessantemente curiosa e che ha bisogno di molte attenzioni ha origine dal cane, la donna pigra e apatica deriva dalla terra, la donna capricciosa e con sbalzi di umore dall’acqua del mare, la donna testarda ha la sua origine nel mulo, quella inaffidabile e incontrollabile dalla donnola,  la donna fiera oltre misura deriva dalla cavalla, e il genere peggiore e più brutto ha origine dalla scimmia. Solo la ” donna ape” è descritta come virtuosa.

La satira contro le donne è un vero e proprio genere letterario che ha trovato, secoli dopo, nel poeta latino Decimo Giunio Giovenale uno degli esempi più illustri e, per certi aspetti, un modello tuttora insuperato.

Nella satira “Contro le donne” di Giovenale, la cui composizione dovrebbe collocarsi fra il 105 e il 110 d.C., prende a bersaglio nobili e plebee (ma soprattutto le prime), dotte e incolte (sempre le prime), giovani e meno giovani, con una virulenza e un sottile sadismo che ne ha fatto un unicum nel suo genere, in cui si concentrano tutti gli umori antifemministi possibili e immaginabili. La sua indignazione era destata dalla estrema rilassatezza dei costumi provocata dall’aumento del benessere e dall’arrivo a Roma, insieme alle spoglie di tanti nemici vinti, di  usanze, costumi, religioni e pratiche sociali, che travolsero l’antica sobrietà. E, in un simile contesto «tradizionalista», la polemica di Giovenale si appunta con particolare accanimento, indugiandovi con tratti di autentica ferocia, sul malcostume delle donne, forse con una intensità proporzionata alla idealizzazione che della casta matrona aveva fatto la prima età repubblicana, dipingendola come un autentico angelo del focolare. Ecco perché, tra i comportamenti delle donne – specialmente nobili – che particolarmente lo irritano e lo spingono a incrudelire, vi sono quelli come il gusto delle attività sportive «virili» o come la partecipazione, ostentata e volgare, ai banchetti serali, dall’alto del triclinio, introducendosi in ambienti e situazioni che erano stati di esclusiva pertinenza maschile.

Non stupisce quindi che, a secoli di distanza, le “cose” di cosiddetta esclusiva pertinenza maschile, diventeranno motivo per una satira a volte feroce.

Nella seconda metà dell’800 è un fiorire in Italia, e soprattutto a Milano, di riviste umoristiche e satiriche; sono testate di intrattenimento come Lo Spirito folletto, Il Motto per ridere, Il Caricaturista, Il Mondo umoristico, in cui emerge un’ironia bonaria ottocentesca, con cui si ritraevano donne all’interno di salotti borghesi nei quali, fra trine e ventagli, si intuiva il clima famigliare che precedeva il “buon matrimonio”, la “caccia al marito” per fuggire lo spettro dell’essere zitella. Immaginata così dalla cultura di quegli anni, emerge la caricatura di una donna virtuosa che sembra far parte dell’interno della casa, ritratta in ambienti chiusi ed evocativi di intimità domestiche, e l’allusione satirica, venata di moralismo, era affidata quasi esclusivamente alle didascalie che dovevano in qualche modo far comprendere il senso di quelle immagini.

L’umorismo accattivante si affiancava, però, ad una satira da cui emergeva la difficoltà della società del tempo a capire i mutamenti rilevanti all’interno della famiglia, e nelle riviste del primo Novecento l’umorismo diveniva poi più acre a fronte delle istanze emancipazioniste e suffragiste e alla presa di coscienza delle donne.

La donna di inizio ‘900 irrompe, nelle illustrazioni, con tutta la sua carica di modernità in uno stile completamente nuovo, cogliendone soprattutto l’aspetto trasgressivo: abiti maschili e sigaretta in bocca, l’emancipazionista appare sempre in luoghi aperti o all’interno di circoli femministi. La partecipazione delle protagoniste del tempo alla vita politica e sociale, considerata appunto di esclusiva pertinenza maschile, viene dileggiata e irrisa e le donne stesse vengono raffigurate o come delle erinni e comunque brutte, grasse, vecchie, sgangherate, e, soprattutto per quanto riguarda le suffragiste, come madri sciagurate o zitelle avvizzite.

In questa rappresentazione in Italia è maestro il Guerin Meschino, giornale milanese conservatore stampato dal 1892, che, in occasione del Congresso di attività pratica femminile del 1908 raffigura così le allora esponenti di spicco delle battaglie emancipazioniste e suffragiste (Ersilia Majno, Regina Teruzzi, Paolina Schiff, Linda Malnati, Ellen Kay). Il periodo del ventennio fascista, caratterizzato fin dalle origini dal rifiuto di mettere su un piano di parità donne e uomini e dall’esaltazione della donna come “angelo del focolare”, moglie sottomessa e madre prolifera,  rappresenta un capitolo a sé.

L’uso della violenza e i simboli di questa violenza (divisa nera-manganello-slogan truculenti) attribuivano al fascismo un carattere tipicamente maschile.     D’altra parte la satira si accanisce contro le donne  impegnate politicamente in un congresso: sempre brutte, vecchie e di “sesso incerto”, come dimostra ancora una volta il Guerin Meschino  con la  vignetta Il lato buono del 1925, che ritrae delle anziane congressiste molto compiaciute per la sostenuta immaturità della donna: tema, questo dell’immaturità femminile, ricorrente nella pubblicistica  del tempo per osteggiare i diritti di cittadinanza reclamati dalle donne stesse (Vogliamo il voto eppure pare che non siamo – grazie al Ciel – mature!). Oppure con la vignetta Il suffragetto dove l’uomo piccolo e stretto da gigantesse -Michelino-, in occasione della legge per il voto amministrativo del 1925 alle donne, difende il sesso debole.

Dopo il 1925  il controllo del regime fascista, e della sua censura, era ancor più importante su quei giornali che entravano nelle case degli italiani con il compito di far sorridere sulle difficoltà che attraversava la nazione,  comprendendo bene quanta efficacia ci fosse nel binomio satira-illustrazione e quanta potenzialità fosse contenuta in esso; questi giornali diventavano quindi strumenti nella comunicazione relativa al modello femminile proposto dall’etica fascista e la figura femminile diviene obiettivo principale in quanto nella realtà quotidiana è alla donna che viene richiesto il maggior impegno e sacrificio nella battaglia autarchica.

Negli anni ‘30 per il regime fascista le donne stavano assumendo un atteggiamento considerato troppo trasgressivo, soprattutto nelle grandi città: i genitori permettevano alle proprie figlie di frequentare sale da ballo, la moda sfidava il perbenismo e la tradizione, le giovani portavano gonne corte, capelli “alla maschietto” e calze trasparenti.  E la presenza delle donne negli uffici e nelle fabbriche preoccupavano i giovani che difficilmente trovavano lavoro.                        La stampa fascista si fece interprete di questi timori, tramite la propaganda a favore del “ritorno a casa” delle donne: bersaglio ricorrente nella satira del ventennio è il lavoro delle donne, una satira che insiste nello sbeffeggiare la figura della lavoratrice.

La donna che sorride dalle pagine di Ecco Settebello, del Travaso delle idee o del Marc’Aurelio appare smaliziata, moderna, velatamente opportunista e protagonista di una scena in cui l’uomo viene raffigurato spesso sullo sfondo, piccolo e intimorito.

L’identità della donna non è più definita dal nucleo familiare, ma dal tipo di lavoro che svolge; una donna che si muove con disinvoltura, che vuole divertirsi e per questo rappresentata provocante e moralmente “poco seria”.

Gli umoristi tratteggiano segretarie compiacenti con i commendatori, professioniste fatue ed incapaci e vengono così riproposti, con un umorismo a sfondo sessuale, luoghi comuni come ad esempio quello sulle avvocatesse che indossano la toga come un abito da sera, sfilano come indossatrici nelle aule del tribunale e accavallano in modo provocatorio le gambe, oppure come quello della  dottoressa tutta corpo, dispensatrice di consigli stravaganti.

D’altra parte, la satira poteva accanirsi facilmente contro le donne, in quanto rappresentavano un bersaglio sostanzialmente debole, culturalmente e politicamente.

In questo modo la stampa satirica sostiene l’opera di propaganda del regime che riteneva riprovevole la donna che intraprendeva professioni in contrasto con l’ideologia dominante e che sosteneva come le studentesse dovessero realizzarsi in professioni in sintonia col ruolo materno. In particolare, il Marc’Aurelio sfornava vignette sulla figura delle donne “scrittrici”, accusate di plagio o di compiacenti amicizie con l’editore, perché il regime indicava tale figura come un modello negativo, l’opposto della madre prolifica.

Si attaccano gli atteggiamenti delle “signore” di città, con l’ovvio intento di arginare il malumore dei ceti meno abbienti e, nello stesso tempo, di rafforzare la propaganda rivolta alle contadine, che andavano in città a vendere i prodotti della campagna, entrando così in contatto con nuovi modelli di consumo tipici delle “donne cittadine”. Non compaiono quindi vignette satiriche indirizzate alla “massaia rurale” così come non compaiono nei confronti delle insegnanti, troppo importanti per il regime per il ruolo che svolgevano all’interno della scuola.

Negli anni terribili della Seconda guerra mondiale su Ecco Il Settebello compaiono i disegni di Gino Boccasile, con donne che vengono ritratte con gambe provocanti, strette in calze velate con riga e tacchi a spillo e seni irresistibili messi in mostra per far intravvedere all’uomo piaceri sessuali in cambio di zucchero, caffè, burro.

Le donne ritratte sono ben vestite, tutte “pin up”, non patiscono fame né freddo, sono coinvolte da corteggiatori insistenti e, nella loro superficialità, non si accorgono che c’è la guerra, o se si accorgono pregano (Preghiera di una vergine della sesta colonna Alifax) perché le bombe risparmino il proprio guardaroba.  Il secondo dopoguerra non cambia di molto gli stereotipi con cui viene ritratta la donna.

Benchè masse di donne avessero partecipato alla Resistenza, contribuendo in prima persona alla rinascita del paese e finalmente votassero, i giornali umoristici tra il 1946 e il 1948 ripropongo la satira sulla donna che prende direttamente parte alla vita politica e sociale italiana.

Così su Il galantuomo, settimanale di amenità di stampo qualunquistico, vi è un piccolo uomo spaventato, di fianco alla sua gigantesca consorte, che chiede protezione all’ U.D.I ovvero la Difesa della donna (che poi sarebbe l’Unione Donne italiane) …

“Scusi, a me chi mi difende da mia moglie?” Una donnona, quindi ancora una volta grottesca, e anche “virilizzata” come rappresentata in particolare nelle vignette di Giovanni Guareschi sul Candido (Senti come parla Teresa Noce! Che uomo).

D’altra parte, anche sui giornali satirici non conservatori non si elimina il vecchio cliché, anzi: su Il pettirosso, supplemento satirico dell’Avanti!  pubblicato subito dopo la Liberazione, e dunque giornale di sinistra, compaiono vignette che ritraggono le giovani donne “indaffarate” con gli alleati perché alla ricerca di una buona posizione, o giovani donne che, sbarcate in America per trovare marito, trovandosi di fronte ad una popolazione di uomini neri tutti uguali si chiedono “ma chi sarà lui?”.  Infine, sui giornali satirici anticlericali molto popolari nel secondo dopoguerra (Don Basilio, Il Mercante) la figura femminile viene utilizzata prevalentemente per sottolineare le nefandezze della Chiesa e in generale del clero.

Come dire…………. Il biasimo delle donne non è finito!!!!

Marina Cattaneo – Fondazione Kuliscioff

 

 

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