Per trovare un’opera cinematografica che affronti la dimensione del sacro, ovvero il rapporto col Divino proprio di ogni religione e culto, come nel nuovo capolavoro assoluto di Marco Bellocchio, devo pensare a “La passione di Giovanna d’Arco” di Carl Theodor Dreyer.
Qui a differenza del “Processo a Giovanna d’Arco” di Bresson, dove Giovanna è vista come una santa in modo esterno, Giovanna è in un rapporto col trascendente assolutamente umano e interiore. Proprio secondo i dettami di Jung, per il quale il rapporto con Dio è un impulso dell’anima o uno stato psichico, un’asserzione su quanto è conoscibile e non su quanto è inconoscibile, su cui non possiamo affermare assolutamente nulla.
Come Dreyer, Bellocchio, affrontando il tema del sacro, non si piega infatti allo stile trascendentale. Vi sono i sogni, in veste chiarificatrice e psicanalitica dei personaggi, delle loro progressioni e delle involuzioni psicologiche. Ma si resta a un passo dalla rappresentazione della trascendenza, rappresentando, come in Dreyer, la persona che della trascendenza fa esperienza.
Addirittura, Bellocchio, nella parabola di Edgardo Mortara sottratto bambino, nell’Ottocento, alla propria famiglia ebrea dalla chiesa cattolica in quanto fortuitamente battezzato, di approcci trascendentali ne mette a confronto due, quello ebreo e quello cattolico. Entrambi costruiti su dogmi e riti, entrambi codificati. Entrambi smontati da Bellocchio in un confronto magistrale, spesso affidato al montaggio parallelo (il montaggio di Francesca Calvelli e Stefano Mariotti è semplicemente eccelso).
Mettendo a confronto rituali e fedi religiose, li porta verso una sorta di corto circuito, di esplosione mentale dei vari cleri, dei vari osservanti, degli adepti di entrambi le religioni. Messe come su un ring spirituale dal Cinema vigoroso, atletico, giovanissimo, emozionante e a suspense come un thriller di Bellocchio. Che qui come nello splendido “Il traditore” pare più che un maestro e un veterano, uno sperimentatore, un inventore di nuovi linguaggi cinematografici.
Di nuovo con punte Viscontine, che se ne “Il traditore ” richiamavano “Il Gattopardo”, qui richiamano “Senso”. Eleganti, magnifiche, mai estetizzanti, mai fini a sé stesse, sempre calate in una complessità profondamente oscura, che avvicina Bellocchio a Visconti.
Tutto in “Rapito” è così travolgente, da non lasciar quasi spazio a possibili ingorghi intellettuali, perché è l’immagine sempre e comunque a parlare. I volti, come in Dreyer espressivi fino all’espressionismo.
Non uno manca di un centro e una definizione. Da quelli dei protagonisti Fausto Russo Alesi, Barbara Ronchi, Paolo Pierobon, Fabrizio Gifuni inquisitore dreyeriano, a quelli dei camei di due iconici attori teatrali come Federica Fracassi e Daria Deflorian, a quelli dei due giovani superlativi: Enea Sala (Edgardo ancora bimbo) e Leonardo Maltese (Edgardo adulto), entrambi plagiati dalla fede fino a renderli folli. E questo credo sia il vero “rapimento” di cui parla in realtà Bellocchio, in quest’opera somma sul match fra sondabile e insondabile, fra realtà e sogno, fra visione profonda e visione indotta (e quella del Crocifisso liberato dai chiodi da parte del piccolo ebreo convertito al cristianesimo, che gli ha inculcato il senso di colpa per avere lui ebreo messo Cristo in croce, entra di diritto fin da ora nella Storia del Cinema sacrale.