L’incipit è shoccante con quell’interminabile magnifica sequenza circolare attorno al piccolo Buddy, che torna a casa dai giochi e lascia alle sue spalle il mondo gioioso dell’infanzia e si ritrova davanti la guerra nella sua violenza più atroce.
E’ quella religiosa dell’Irlanda del Nord, che a fine Anni 60 trasformò la pacifica Belfast in un assurdo teatro fratricida fra cattolici e protestanti. Ma a Branagh la guerra interessa fin lì e infatti via via la lascia sullo sfondo, creando un racconto di formazione autobiografico dove predominano i sentimenti, gli affetti, gli amori, le delusioni, gli inganni, le scoperte, le illusioni e le disillusioni. A quel punto mentre il film cresce dal lato privato e decresce da quello pubblico, si affaccia un senso di nostalgia che si muta in elegia. Si affacciano allora alla memoria due film grandiosi, due capolavori assoluti a cui BELFAST si imparenta, formando una trilogia della nostalgia e della crescita sullo sfondo di guerre vicine, ma lontane, viste come sfondo dominato dalla quotidianità dei sentimenti, anche non detti o indicibili: QUELL’ESTATE DEL 42 di Robert Mulligan e L’ULTIMO SPETTACOLO di Peter Bogdanovich.
Se a quest’ultimo BELFAST si lega anche per l’uso di un bianco e nero ultra-espressivo, si rispecchia in entrambi i film per la bellezza, l’intensità, la semplicità e la complessità dei personaggi, che sentiamo nelle tre opere vivi, ma anche morti, presenti eppure già passati. Formando un grande cast superlativo che si fonde da un film all’altro, giovani e vecchi, bambini e ragazzi, giovani donne bellissime, uomini operosi; in un rimando continuo, in un SPOON RIVER della Settima Arte. Perché i film si legano fra loro, invadono la mente la memoria l’inconscio collettivo, prendendo vita e colori gli uni dagli altri. Per questo non a caso in questo film memorabile di Kenneth Branagh, solo al Cinema e a Teatro la visione diventa a colori. Mentre la TV resta in bianco e nero.
Carlo Confalonieri