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  Un’osservazione sul governo dell’epidemia di Flavio Spalla 

Tra i profili di approfondimento, che questo tormentato periodo ci sprona ad operare, vi è quello che potremmo denominare “governo dell’epidemia”, con riferimento alla dimensione del nostro Paese. Responsabilità principale delle istituzioni politiche è quella di governare l’epidemia, non meno di quella di intervenire tecnicamente con strumenti sanitari. Ma tale governo, specialmente in un periodo di emergenza, necessita di attori istituzionali orientati a perseguire un obiettivo comune, nel rispetto di fonti normative condivise.

Invece, uno dei punti più problematici sui quali il governo dell’epidemia, in qualche misura, si incaglia, è proprio quello di conferire legittimazione ad una certa istituzione politica, di accreditarla come fonte del potere. Voglio dire che nei fatti si dipana quotidianamente una tensione politica che ha origine in un’irrisolta tensione istituzionale. Da un lato stanno i centralisti statalisti, dall’altro gli autonomisti regionalisti. Ed entrambi vantano solide ragioni per invocare la propria preminenza nel governo dell’epidemia. Il fondamento principale, a cui entrambe le posizioni si riferiscono -ed hanno legittimità per farlo- è la carta costituzionale che, peraltro, viene puntualmente richiamata con riferimenti differenti, per avocare a sé buone ragioni e maggiore legittimità.

Gli statalisti sottolineano il principio secondo cui “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività…” (Cost., Art. 32) e, inoltre, avvalorano la competenza statale in materia riferendosi alla profilassi internazionale (Cost., Art. 117, comma 2, lettera q). L’epidemia diventa, in tal modo, materia di competenza dello Stato in quanto sia dichiarata “pandemia”, come è avvenuto recentemente.

I regionalisti, per parte loro, si appellano al potere di “tutela della salute” quale materia di legislazione concorrente (Cost., Art. 117, comma 3), nonché al principio generale di autonomia garantito dall’Articolo 5 e sviluppato nel Titolo V della Costituzione.

In sostanza, nella vicenda attuale di natura sanitaria riemerge il sotteso tiro alla fune tra statalisti e regionalisti, ancora oggi presente nel nostro sistema, con un rimando implicito alla contrapposizione tra legislazione esclusiva e legislazione concorrente. Ma proprio qui sta, probabilmente, uno degli equivoci formali che collocano in opposte sponde i sostenitori delle due ideologie. Sulla legislazione esclusiva dello Stato non parrebbe esservi ambiguità interpretativa. È, invece, probabile che qualche ambiguità sorga nell’interpretazione costituzionale di chi sostenga la centralità regionale del “governo dell’epidemia”.

Sembrerebbe che costoro siano inclini a ritenere che legislazione “concorrente” non sia precipuamente concorso verso un obiettivo comune, ma anche una sorta di concorrenza istituzionale, quasi che Stato e Regione diventino antagonisti nella medesima politica. Per dirlo in modo più forte, una concorrenza nell’arena della politica sanitaria. Per eccentrico -a dir poco- che sia, ciò tende a verificarsi nel momento in cui assistiamo a critiche a disposizioni centrali, a ritrazioni nel nome dell’autonomia regionale, all’applicazione locale di deroghe alle norme generali, ad ipotesi di circolazione dei cittadini solo nei confini regionali, a scelte di politica sanitaria mirate -solo per fare un esempio- più alla costruzione di ospedali locali che ad un buon funzionamento della sanità pubblica territoriale, all’ampiamento di convenzioni sanitarie private, alla disciplina commerciale locale delle “mascherine” protettive per i cittadini. Alla lista di questa “non concorrenza” di intenti si possono aggiungere dichiarazioni pubbliche che tendono a sminuire gli interventi dello Stato, percepito, appunto, alla stregua di antagonista istituzionale che limita i poteri locali. Tutto ciò a fronte, invece, di una propaganda mediatica consonante da parte di Regioni e Stato, tutta incentrata sulla tutela, prevenzione e cura dei cittadini.

È quasi superfluo, ma giova ricordare, che un Paese moderno e sviluppato come il nostro è un sistema istituzionale dotato di un governo centrale e di governi locali costituzionalmente garantiti. Questi ultimi sono sottosistemi, disciplinati ad agire autonomamente all’interno di una “Repubblica, una e indivisibile, (che) riconosce e promuove le autonomie locali” (Cost., Art. 5). Ma finché questo spirito “sistemico” del costituente non sia pienamente compreso e condiviso, anche una vicenda accomunante, come quella di un’epidemia generale, può portare con sé e nascondere inclinazioni dissonanti con l’impianto istituzionale.

In tal senso l’epidemia in corso offre, tra gli altri, uno spunto per riflettere ulteriormente sulla natura dell’autonomia istituzionale locale, in chiave di vicinanza o distanziamento rispetto al modello sistemico. In una parola, si palesa e si rafforza la dicotomia regionalismo sistemico vs. regionalismo non sistemico.

Sul punto giova l’osservazione di alcune posizioni assunte recentemente da leader istituzionali regionali. In quasi tutte le Regioni italiane sembra, in effetti, affermarsi un’autonomia “sistemica” nei modi in cui affrontare la crisi sanitaria: gli orientamenti centrali vengono recepiti e gli interventi locali rimodulati secondo le proprie situazioni contingenti. I sottosistemi regionali concorrono sintonicamente con lo Stato alla disciplina e all’implementazione delle politiche sanitarie, ciascuno impiegando le proprie differenti risorse. In altri casi, invece, l’epidemia sembra diventare occasione per ribadire i propri poteri locali, distanziandosi per quanto possibile da impulsi centrali e facendo scelte proprie, che evocano un’autonomia di natura “federalista”. E non si pensi soltanto a contesti locali governati da partiti attualmente anti-governativi. L’impulso di distanziamento dal sistema statuale, di autodeterminazione delle scelte di politica sanitaria, di vigile tutela del proprio territorio, emerge anche in altre zone. Si pensi, ad esempio, ad alcune Regioni e a tanti Comuni che debbono la propria ricchezza ad una risalente politica di edilizia privata per villeggianti. Sono gli stessi che oggi chiuderebbero le proprie “frontiere” ai proprietari provenienti da altre Regioni, nel timore di importare il virus. Una preservazione di interessi locali comprensibile che, tuttavia, favorisce, non sempre consciamente, una visione di stampo anti-statalista nei rapporti Stato-autonomie. Nella stessa logica si muove l’ipotesi di contenimento di cittadini entro i limiti territoriali della propria Regione. Solo per il fatto di essere state ipotizzate e sostenute localmente, queste eventualità rappresentano posizioni volutamente in contrasto con l’unitarietà dello Stato, in tema di circolazione dei cittadini nel territorio nazionale (Cost., Art. 16).

In buona sostanza, modelli differenti di autonomia locale portano con sé interpretazioni diverse dello spirito costituzionale in tema di legislazione concorrente. Nel governo dell’epidemia, alle Regioni “sistemiche”, che operano nel solco della norma costitutiva, vanno affiancandosi altre Regioni che manifestano orientamenti di autonomia locale nei quali il rapporto con lo Stato -e con il dettato costituzionale- diventa intenzionalmente disarmonico e, in qualche caso, conflittuale. Non rallegra notare che l’occasione di un abbraccio comunitario tra Stato e poteri locali per uscire dalla crisi sanitaria potrebbe sfociare in un braccio di ferro tra statalisti e autonomisti “non sistemici”.

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