Durante la fase iniziale della pandemia di COVID-19 la risposta clinica all’infezione da coronavirus negli uomini e nelle donne veniva riportata con differenze di genere variabili in base alla precocità del report scientifico; ad esempio, in Cina, la distribuzione per genere era riportata essere la stessa in uno dei primi report, mentre già a distanza di qualche mese appariva evidente che il 58% dei pazienti affetti dalla malattia erano uomini. Anche negli Stati Uniti, dati provenienti dall’area di New York mostravano una minore prevalenza di donne, associata ad una minore mortalità per diverse fasce di età: il genere femminile sembrava rappresentare un fattore protettivo per la mortalità ospedaliera in un ampio database osservazionale che raccoglie pazienti da Asia, Europa e Stati Uniti. Questa differenza di genere nella suscettibilità all’infezione da coronavirus era stata già notata con l’epidemia di SARS nel 2012, mentre lo stesso agente virale aveva avuto effetti devastanti simili in uomini e donne durante la MERS del 2016.
Andando a verificare i dati della gravità del quadro clinico di COVID-19, già prima dell’estate 2020, era diventato chiaro che l’età e la multimorbilità sono i maggiori determinanti della manifestazione clinica più grave della malattia, tuttavia a lungo è rimasto inesplorato il ruolo del genere nel determinismo dei quadri clinici più severi della malattia1. In effetti, tra i pazienti critici, le donne sono state colpite meno rispetto agli uomini sia in Cina che in Italia (rispettivamente 33 e 18%); anche la mortalità sembra essere più alta negli uomini2. È stato suggerito che la predisposizione di genere maschile osservata potrebbe essere spiegata dalla percentuale più alta di fumatori rispetto alle donne. Sono stati inoltre evocati aspetti biologici legati al genere, tra cui l’attività dell’enzima ACE2, il metabolismo e l’immunologia e la risposta ai farmaci, in maniera non conclusiva.
La Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa è riuscita a metter in piedi un database con dati epidemiologici dei pazienti COVID-19 afferenti alle strutture ospedaliere associate. Utilizzando questo database, abbiamo potuto dare risposta ad alcuni quesiti sul ruolo del genere durante la prima fase della pandemia. In particolare, l’accesso in terapia intensiva ha rappresentato un grosso limite nella gestione del paziente COVID-19, in quanto la disponibilità di posti letto intensivi in Italia è andata rapidamente esaurendosi. La conoscenza delle cause più frequenti di accesso alle terapie intensive aiuta a razionalizzare le risorse. Abbiamo descritto che i principali determinanti del ricovero in terapia intensiva durante COVID-19 sono il sesso maschile, l’obesità e la presenza di più comorbidità. Tra queste, si poteva leggere una differenza di genere: gli uomini ammessi in terapia intensiva erano più spesso obesi, ipertesi e affetti da malattia renale cronica, mentre le donne erano più anziane e presentavano come comorbidità dominanti l’obesità e insufficienza cardiaca3.
È verosimile quindi che esista una suscettibilità specifica per genere all’infezione e alla progressione della malattia. Le donne, anche dopo la menopausa, sembrano essere protette dal COVID-19 e da una più sfavorevole evoluzione della malattia. Un meccanismo biologico alla base del rischio più elevato degli uomini potrebbe risiedere nella diversa capacità di risposta immunitaria legata al sesso, responsabile delle note differenze tra uomini e donne per quanto riguarda le malattie autoimmuni e la risposta ai vaccini. Nel caso specifico, gli androgeni sarebbero in grado di regolare la proteasi transmembrana serina 2, cioè l’enzima che consente l’ingresso dell’RNA virale nella cellula. In conclusione, le donne risultano generalmente più protette dalla malattia COVID-19, si ammalano più tardivamente e spesso presentano quadri clinici più benevoli.
Prof. Guido Iaccarino – Università Federico II, Napoli
Prof.ssa Maria Lorenza Muiesan – Università di Brescia