A fronte delle recenti importanti scoperte delle neuroscienze sul funzionamento del cervello, ci si è poco interrogati su come soggettivamente si sente una persona anziana affetta da demenza e come funziona il suo apparato psichico. Eppure, il danno a livello cerebrale comporta alterazioni significative del senso di identità e porta pian piano i familiari e le persone care a sentire che non è più la stessa persona, perché è colpito il cuore della personalità.
Per questo la paura, il disorientamento, la confusione investono anche i familiari con conseguenze cariche di sofferenza; si rompono importanti equilibri personali che incidono sulla stabilità dei rapporti familiari perché “la malattia attacca e fà vacillare il sentimento di riconoscimento reciproco” (1).
Numerose ricerche in campo psicosociale evidenziano che l’assistenza ai pazienti, sia da parte degli operatori, sia dei familiari, può provocare gravi disturbi fisici e mentali. Le ricerche mostrano che chi convive con il malato è il più riluttante a chiedere aiuto, ed è anche colui che ha più probabilità di essere depresso di quello che non convive con il paziente, tanto che i familiari conviventi sono stati definiti “le vittime nascoste della demenza” (2).
Tra l’altro chi presta assistenza al malato è di solito il coniuge (ugualmente anziano) o un figlio, più spesso una figlia, a loro volta in un’età particolare, quella involutiva del climaterio che molti studi evidenziano come la più a rischio per la depressione; a sua volta ritenuta da più parti un fattore di rischio della demenza (3) .
Queste osservazioni confermano che è necessario sviluppare strategie preventive a salvaguardia dei familiari e quindi a beneficio delle persone malate da loro assistite.
Ma c’è un secondo motivo, non meno importante, per cui val la pena di occuparsi dei familiari: essi sono testimoni privilegiati non solo della storia del paziente, ma soprattutto perché, per lo più inconsapevolmente, hanno intrattenuto ed intrattengono con lui/lei una relazione di ruolo (4), da sempre caratterizzata da rispondenze reciproche. Queste “conoscenze”, se esplicitate e rese utilizzabili, non solo possono essere di aiuto ai familiari per padroneggiare meglio la loro difficile situazione, ma possono fornire interessanti ipotesi di ricerca per comprendere la soggettività dell’anziano demente e come funziona il suo apparato psichico.
Le note che seguono derivano dalla mia esperienza con un gruppo dedicato ai familiari, promosso dal Comune di Brescia, a partire dal febbraio 2004.
Nel mio lavoro ho seguito ipotesi teoriche alla base di ricerche nel campo delle neuroscienze, e in modo specifico le ricerche che hanno evidenziato diversi tipi di memoria:
La memoria dunque non è solo ciò che siamo in grado di ricordare consciamente del passato; secondo questa definizione è molto più ampia, è l’insieme dei processi in base ai quali gli eventi del passato influenzano le risposte future.
Gli avvenimenti passati possono influire in maniera diretta su come e che cosa impariamo, anche se di tali avvenimenti non necessariamente abbiamo un ricordo conscio: le nostre esperienze precoci modellano il nostro modo di comportarci e di avere rapporti con gli altri, anche se non siamo in grado di ricordare quando queste esperienze si sono verificate.
Ma che cosa succede alla memoria dell’anziano demente?
Possiamo ipotizzare che alla graduale perdita della memoria esplicita, corrisponda un’emersione più consistente e visibile di quella implicita e soprattutto di quegli schemi mentali più primitivi, formatisi nei primi anni di vita, che danno una particolare forma e organizzazione alle esperienze attuali dell’anziano demente.
Questa ipotesi può essere meglio approfondita ed avvalorata seguendo due filoni di pensiero.
Dal punto di vista del cognitivismo: lo studioso B. Clyman (5), rifacendosi in particolare a Piaget e alle neuroscienze, ipotizza l’esistenza, accanto alle procedure cognitive, di un’organizzazione procedurale delle emozioni che si forma molto presto nell’infanzia e che resiste agli effetti dell’amnesia infantile. Le procedure cognitive sono, per così dire, colorate dalle procedure emozionali nel corso di tutta la vita. (6)
Dal punto di vista della psicoanalisi, le ricerche di J. e di M. Sandler (7) arricchiscono la comprensione del funzionamento di queste procedure, o matrici dinamiche, come essi le definiscono. “Le matrici dinamiche dell’inconscio passato, pur formatesi nella prima infanzia, sono strutture psicologiche attualissime ed attive e costituiscono il bambino dentro (….). Sono responsabili di una tendenza persistente ed ineliminabile della persona a funzionare come se fosse un bambino piccolo di quattro, cinque anni (….). Questa tendenza provoca nel bambino più grande e nell’adulto continui conflitti disturbanti e potenzialmente patogeni, che devono essere affrontati in qualche modo all’interno dell’inconscio presente dove questo insieme di schemi, procedure, regole dei primissimi anni di vita vengono avvertite come inappropriate o minacciose per l’equilibrio della persona adulta (…) e quindi censurate e sottoposte all’azione difensiva che le inibisce o modifica per renderle più accettabili alla coscienza” (8), al fine di mantenere il maggiore sentimento di benessere e sicurezza possibile: criterio dominante del funzionamento dell’apparato psichico.
Il bisogno di mantenere il sentimento di sicurezza è di enorme importanza per l’adattamento (9): esperienze di ansia o di disorganizzazione abbassano il livello di sicurezza ed inducono comportamenti che a prima vista sembrano non adattivi, ma in realtà lo sono, perché mirano a ristabilire un livello minimo del sentimento di sicurezza. Ne è un esempio: il comportamento stereotipato e bizzarro degli psicotici, teso a creare una situazione percettivamente stabile; o, ancora, le persone sofferenti di nevrosi post-traumatica che continuano a rivivere l’esperienza traumatica al fine di padroneggiare l’ansia e ristabilire il sentimento di sicurezza.
Possiamo ipotizzare che le relazioni attuali dell’anziano demente si caratterizzino per un’irruzione diretta di queste matrici dinamiche primitive, quanto più risulta indebolito il lavoro di elaborazione e mediazione della censura e delle attività difensive più evolute, condizionate dai processi del pensiero secondario che consente l’esame di realtà.
L’attività di queste matrici assume una importante funzione adattiva, in quanto contribuisce a ristabilire il sentimento di sicurezza che la malattia ha fatto vacillare.
Ma quali caratteristiche ha questa disinibizione delle strutture più arcaiche nell’anziano demente?
Se non ci accontentiamo di una risposta che si riferisca esclusivamente ad una causa organica conseguente ai danni a livello cerebrale, possiamo indagare sull’esperienza del cervello. Se è vero che il cervello è un organo “esperienza-dipendente” (10), anche le vicende della vita e come ciascun individuo “ le metabolizza” giocano un ruolo, plasmando q il suo cervello. In particolare, quale ruolo giocano esperienze soggettivamente dolorose e traumatiche nel dare una forma particolare ai “disturbi comportamentali” di ogni persona malata?
Ha un senso il fatto che molto spesso i familiari, più o meno consapevolmente, parlino “di una causa scatenante” della malattia ? Oppure si tratta solamente di un tentativo di dare un senso alla loro esperienza sconvolgente? D’altro canto, si può ritenere che questo tentativo sia un punto di partenza ragionevole per cercare il filo della continuità e dell’integrazione fra la relazione passata e quella attuale con il loro congiunto malato. Un modo che consenta di riconoscersi e, in questo riconoscimento, trovare un po’ di sollievo al dolore e alla confusione.
Ciò che i familiari presentano per prima cosa nel gruppo è la loro relazione quotidiana con il loro congiunto malato, entrata in crisi con l’avvento della malattia: possiamo ipotizzare che questa crisi sia causata dalla irruzione di una relazione di ruolo che era da sempre caratterizzata da rispondenze reciproche (cioè strutturate per lo più sulla forma delle matrici dinamiche), mantenutasi relativamente stabile nel corso degli anni, ma mitigata dai processi del pensiero secondario e dall’esame di realtà.
Individuare gli elementi di continuità tra passato e presente di queste rispondenze reciproche, può consentire ai familiari di ritrovare quel filo: divenendone consapevoli, possono padroneggiare meglio la loro difficile situazione, ristabilendo il loro sentimento di sicurezza nella relazione con il loro congiunto malato in modo più realistico ed adeguato.
Su queste ipotesi si basa il lavoro nel gruppo dedicato ai familiari. Ma vediamo più concretamente come questa ipotesi può essere utile con la presentazione di alcuni casi.
BEATRICE
Beatrice è figlia di una signora di 88 anni, che nel 1981 subisce un intervento cardiochirurgico e da lì inizia il suo declino (prima depressione, poi demenza vascolare). Beatrice si sente continuamente svalorizzata dalla madre: non fa mai abbastanza né abbastanza bene. Ella, che ha sempre ammirato molto la madre, soffre nel constatare il suo declino, non la riconosce più e risponde alla madre svalorizzandola a sua volta per la sua passività e per la sua incapacità, per poi sentirsi avvilita ed in colpa.
Storia: La madre di Beatrice è sempre stata super attiva fino a 81 anni (a quella età subisce l’intervento al cuore e le muoiono due sorelle). Avendo perso il marito a 53 anni (per quattro anni paralitico lo aveva assistito da sola), ha fatto della sua autonomia un punto d’onore: trascorreva l’inverno in Liguria dove si era fatta amicizie, hobbyes (musica, lettura, etc; andava a piedi da un paese all’altro della Liguria, perché aveva letto tutti i libri della biblioteca del paese dove risiedeva).
Beatrice ammirava molto sua madre che era stata sempre la figura “forte” della famiglia, al contrario del padre ,”debole e dipendente dalla moglie”. La madre aveva sempre perseguito grandi obiettivi (attività imprenditoriali, costruzione di una grande casa con appartamenti anche per i due figli). Molto fiera di sé, si era sempre paragonata alle sorelle, che avevano fatto fortuna con matrimoni “importanti”. Non con le loro forze come lei! e, sorpresa, è la quinta di cinque sorelle, il sesto è l’unico figlio maschio (minore di due anni)! Beatrice riferisce che la madre raccontava di essere stata molto amata e protetta dalle sorelle grandi che la vestivano come una bambola.
Ipotesi
La madre di Beatrice forse si è sentita amata, ma anche passivizzata e svalorizzata: dopo di lei, per la gioia dei genitori è arrivato finalmente il “maschio” ed anche le quattro sorelle più grandi che la proteggevano e vestivano come una bambola l’hanno fatta sentire piccola ed umiliata. A questi sentimenti dolorosi sembra aver reagito con intensi sentimenti di rivalsa (formazione reattiva: l’indipendenza a tutti i costi, non aver bisogno di nessuno; esternalizzazione: sono gli altri che hanno bisogno, marito, sorelle, etc.). La malattia ed i lutti l’hanno inevitabilmente riconfrontata con le sue parti deboli, piccole, bisognose, svalorizzate e questo esame di realtà le è risultato intollerabile: la relazione di ruolo attuale con la figlia sembra ripercorrere l’antico adattamento basato sull’esternalizzazione (matrice). Ma la figlia, che tanto ammirava la madre e l’aveva assunta a modello, “non ci sta “: non solo non ritrova più dolorosamente la madre forte, ma si arrabbia anche, perché si sente svalorizzata e così la svalorizza a sua volta, per poi sentirsi in colpa ed impotente.
Potrebbe essere utile proporsi l’obiettivo di alleviare la ferita narcisistica di questa madre, ma anche quella della signora Beatrice.
Ci ha fornito uno spunto sul come, la stessa signora Beatrice che racconta di tentativi fatti da lei e sua figlia che sta per sposarsi e sta ristrutturando una parte della grande casa della nonna per andarci ad abitare. Beatrice e la figlia cercano di coinvolgerla nella ristrutturazione con risultati deludenti: la nonna non si interessa; questa ristrutturazione non la riguarda. Hanno notato, però, e se ne sono molto stupite, che quando va a trovarla una bambina di 5 anni, vicina di casa, si intrattengono a lungo a chiacchierare e la nonna riprende vita e si mostra assolutamente adeguata: la bambina è molto curiosa dei muratori che stanno lavorando e fà un sacco di domande curiose ed interessate alla nonna sul come, sul quando, e sul perché aveva costruito quella grande casa e la nonna si appassiona a raccontarle di quella sua impresa di grande valore; ricordando, forse recupera e fa rivivere quella sua identità di donna forte capace, imprenditrice, che sente di aver perduto.
Il sentimento di sicurezza è ristabilito in modo “più sano “attraverso il recupero e l’integrazione di elementi della memoria esplicita autobiografica e, soprattutto, attraverso il rapporto con la bambina che le consente di esternalizzare le sue parti piccole in modo più adeguato e consono alla realtà.
GIANNA e sua figlia GIULIA
Parlano della sorella di Gianna (zia per Giulia) che ha 70 anni, in cura da quattro anni per Alzheimer. Giulia in particolare esprime una preoccupazione per la madre “esaurita” dall’accudimento alla sorella “dispettosa, oppositiva” (grosso problema: le fughe). Gianna e la sorella abitano attualmente in centro in due appartamenti attigui e, nonostante il sollievo per la frequenza al centro diurno, Gianna è costantemente in allarme per i guai che la sorella combina.
Storia: Gianna racconta una storia familiare molto difficile: il padre a 74 anni è stato trovato morto in un bosco (abitavano in una regione del Centro Italia) per “una fuga da Alzheimer, anche se allora non si chiamava così”, In realtà era sempre stato un uomo molto ansioso e pauroso: “dormiva sempre con la luce accesa per la paura”. Resta vedovo a 33 anni con sei figli! Tutti più o meno con storie problematiche, “ con l’esaurimento nervoso” (attualmente due sorelle sono malate di Parkinson, un’altra di demenza ed abitano in altre città). Alla morte della mamma , tre sorelle vengono mandate in collegio dalle suore, tra esse anche Gianna (tre anni) e questa sorella (cinque anni). Del collegio Gianna ricorda la durezza, i maltrattamenti, il cibo scarso, il freddo, ed il rapporto molto intenso con sua sorella. Di sè ricorda le reazioni a questi disagi e le conseguenti punizioni, la sorella invece diceva sempre sì, poi magari faceva di testa sua, anche se era piena di malesseri: tachicardie, difficoltà respiratorie etc. (descrittivamente: attacchi di panico)e Gianna, nonostante fosse più piccola, sentiva di doverla proteggere.
La sorella esce dal collegio a 21 anni e per un anno vive con il padre, facendo la pendolare tutti i giorni, sobbarcandosi in treno un tragitto lunghissimo per recarsi al lavoro (infermiera). Gianna nel frattempo si è sposata ed è venuta ad abitare a Brescia.
Dopo la morte tragica del padre, anche la sorella si trasferisce a Brescia e conduce una vita molto ritirata: non sembra aver avuto rapporti affettivi né di amicizia; stava per lo più sola nella sua casa, pulita ossessivamente, e al lavoro presso Istituzioni dirette da Suore. Nel lavoro si conquista la fiducia e l’affetto per la sua disponibilità, ma quando questa conquista si realizza, di punto in bianco ed inspiegabilmente cambia lavoro, e nel nuovo posto ricomincia daccapo. Gianna riferisce dei malesseri ciclici della sorella (descrittivamente: attacchi di panico, sintomi ossessivi).
Ipotesi
La personalità premorbosa sembra evidenziare una fobia estrusiva, alla cui base sta una scarsa definizione dei confini del Sé, indicativa di una intensa e dolorosa ambivalenza nei confronti dell’attaccamento, vissuto come tanto desiderabile, ma anche come fonte di confusione, annientante: da qui la necessità di difendersi, con una tacita oppositività (definisce i propri confini del sé facendo “il contrario” ) e con il distanziamento (fughe), un tempo meno evidenti, perché accompagnati da un esame di realtà più adeguato (matrice).
Forse per Gianna può essere di sollievo comprendere che i “ dispetti” della sorella. le sue oppositività, le sue fughe, non sono tanto delle azioni contro di lei, ma l’estremo tentativo di proteggersi dal suo intenso desiderio di attaccamento che, per il suo fragile sé (tanto più fragile adesso), è accompagnato indissolubilmente dalla paura di essere annientata.
Può essere anche utile per Gianna comprendere la sua ambivalenza nei confronti della sorella: da un lato l’origine antica della sua rabbia per le aspettative deluse che la sorella , più grande, si occupasse di lei e, dall’altro, il suo bisogno di controllarla continuamente per la paura di perderla.
ANNA e GIUSEPPE
Anna e Giuseppe sono marito e moglie. Raccontano che le Cose vanno meglio da quando la madre di Anna, che vive con loro, frequenta il Centro Diurno, ma che è da sempre un problema drammatico il rapporto della nonna con il loro bambino che ora ha 10 anni: la nonna è molto controllante, specie con lui, e “delira” che sia suo figlio da quando il bambino aveva un anno; questo spaventa il bambino e sconcerta e disorienta i genitori. In particolare Giuseppe esprime sentimenti di rabbia nei confronti della suocera ed Anna soprattutto sentimenti di vergogna, di colpa e di impotenza.
Storia: Anna, figlia unica, e Giuseppe si sposano nel 1982 e convivono con la madre e la nonna di lei (quest’ultima muore nel 1984). Per dieci anni non riescono ad avere figli, lei subisce un aborto per una gravidanza extrauterina e si sottopone a cure per la sterilità, finché nasce il loro bambino. La nonna che aveva 63 anni e che fino ad allora era in buona salute e molto attiva (“ faceva la sarta in casa e girava con la sua automobile per prendere le misure e consegnare i vestiti alle sue clienti “), comincia ad accusare i primi segni della demenza (“ distrazioni “con i soldi, sbaglia a prendere le misure, è molto ansiosa ed agitata), finché intorno all’età di un anno del bambino “se ne impossessa”, delira di essere lei la madre, lo tratta “come un bambolotto” lo sveglia mentre dorme, lo costringe a mangiare etc.
Il bambino è terrorizzato. Anna e Giuseppe raccontano addolorati ed angosciati le difficoltà quotidiane di questo rapporto conflittuale e manifestano il bisogno di proteggere il loro bambino a “scapito” della nonna. Poi con imbarazzo e vergogna, sotto la pressione del marito, Anna racconta di essere figlia adottiva.
Ipotesi
La madre adottiva di Anna ha forse vissuto come un abbandono e con una intensa ambivalenza la maternità della figlia adottiva (le cui difficoltà a restare incinta sono forse riconducibili ad una ambivalenza speculare ?)
Impossessandosi del bambino cerca di ristabilire, a scapito dell’esame di realtà, il suo sentimento di sicurezza perduto a causa della maternità della figlia adottiva, nei confronti della quale l’ambivalenza fra sentimenti di amore/ odio, invidia, è risultata intollerabile.
Specularmente Anna con la maternità ha vissuto intensamente il conflitto fra i suoi sentimenti di amore, gratitudine / rabbia, colpa , nei confronti della madre adottiva.
E’ pensabile che mettere un po’ di distanza in questo intenso ed ambivalente rapporto anche con la frequenza della nonna al centro diurno sia molto utile, così come potrebbe essere utile assecondare fuori dalla famiglia il suo delirio, per alleviare la dolorosa ambivalenza dei sentimenti in gioco (ad esempio con la sua partecipazione all’esperienza “vecchi e bambini a scuola “, l’orso “Spinoza “ etc. )
LIDIA
La signora Lidia, 75 anni, ci parla del marito Paolo, malato di Alzheimer da più di 10 anni: ormai quasi completamente afasico, confuso, spesso agitato, benché fisicamente forte e “ in forma”.
La signora Lidia dice di essersi ormai “adattata” alla situazione del marito, anche se ciò che la preoccupa è “la sua incontrollabilità”: rompe in continuazione e con molta abilità tutte le serrature delle porte che trova chiuse e fugge ( una volta è stato trovato alle due di notte a venti chilometri da casa!); o, ancora, a tavola si abbuffa con la testa sul piatto e, se la Signora Lidia glielo allontana per invitarlo a mangiare con calma, egli cerca di infilzarle la mano con la forchetta (“come se volessi affamarlo!”).
Storia: La signora Lidia racconta di un matrimonio sereno, dei loro due figli, ma anche di eventi dolorosi e traumatici: un paio d’anni prima della diagnosi della malattia, la loro famiglia è stata colpita da numerosi lutti violenti ed improvvisi. Racconta delle loro origini istriane, della nostalgia per il mare, per il nuoto (abilità che il Sig. Paolo conserva ancora adesso!). Mi viene in mente di chiedere alla Signora Lidia se la loro venuta a Brescia avesse avuto a che fare con le vicende della guerra e in che modo il futuro marito ne fosse stato coinvolto.
In effetti ella racconta che la sua famiglia d’origine e quella del marito (allora non erano ancora sposati) erano state sfollate a Brescia mentre il marito era prigioniero in Africa. Dopo cinque anni di dura prigionia e affannose ricerche, era riuscito a ricongiungersi con i suoi cari. La signora Lidia ricorda che all’esordio della malattia (la diagnosi non c’era ancora), il marito esasperava tutti, raccontando in continuazione della sua prigionia e di come fosse stato bravo a cavarsela. Le viene anche in mente che se lei lo stimolava a parlare, chiedendogli: “Paolo, come mi chiamo io ?”…“mi chiamo Li….Li…”, la risposta era Libertà!
Ipotesi
E’ ipotizzabile che il sig. Paolo “riviva” la sua esperienza della prigionia, dalla quale è uscito libero, “nella prigione” della demenza, come a ricercare la via di fuga già sperimentata con successo. E’ pensabile che la matrice di “amante della libertà” sia riconducibile ad aspetti adattivi, antichi, e radicati nel carattere del sig. Paolo; può essere un indizio il fatto che il suo lavoro fosse quello di conducente di autobus e in quanto tale era obbligato a seguire percorsi prestabiliti.
Per la Signora Lidia “ri-conoscere” in questo modo il marito, può essere di conforto e può aiutarla ad essere meno ansiosa e confusa a beneficio anche del Signor Paolo.
Sul versante dell’esperienza soggettiva dell’anziano demente, possiamo ipotizzare che, a fronte della graduale disorganizzazione delle strutture cognitive, le strutture emozionali (o matrici dinamiche) assumano la forma di antichi e primitivi aspetti adattivi, tesi a ristabilire il sentimento di sicurezza.
Se è così, val la pena di intervenire anche con “mezzi psicoterapeutici”, quanto meno per contenere gli effetti più regressivi e disturbanti della malattia che rischiano di innescare nelle relazioni del malato, specie quelle familiari, delle reazioni a catena cariche di sofferenza per tutti.
A me sembra di poter individuare alcune aree di lavoro dove l’osservazione, la ricerca e l’intervento possono andare di pari passo ed arricchirsi a vicenda:
manifestino una qualche forma di disagio psichico: colloqui, gruppi di sostegno (11)
In ogni caso l’ascolto delle esperienze dei familiari, ha messo in luce che la loro conquista di una immagine lucida delle caratteristiche di questa patologia, tale che consenta di sentirsi vicini al congiunto malato, è il risultato, non solo della corretta informazione fornita dai medici, ma soprattutto di un prolungato e doloroso lavoro di elaborazione affettiva e di ricerca di un nuovo adattamento mentale.
Rosa Della Bona, psicoterapeuta
(estratto da “L’anziano demente e la sua famiglia: Curare le relazioni famigliari per curare il paziente”)
N o t e