FEMMINICIDI DI OVER 65 MOGLI E MADRI : LE ANZIANE NON SONO VITTIME DI SERIE B
Tratto da un articolo di Elisa Messina del 9 settembre 2024 (settecorriere.it)
Rosa D’Ascenzo, 71enne romana, fu portata al pronto soccorso con una ferita alla testa Il primo gennaio. Il marito disse che era caduta dalle scale. Il suo è il primo femminicidio del 2024. Gli ultimi, mentre scriviamo, sono quelli dell’82enne Anna Lupo, a Collegno, e di Pinuccia Rocca, 66enne della provincia di Alessandria, uccisa dal marito insieme al figlio disabile: tre delitti nello stesso giorno, il 19 agosto. I due assassini poi si sono tolti la vita. In primavera, il marito di Serenella Mugnai, 72enne di Arezzo l’ha freddata con un colpo di pistola: era “logorato” dalla malattia della donna, affetta da Alzheimer, si legge nelle cronache.
«L’ho uccisa perché non la sopportavo più» è la confessione del marito 82enne di Annarita Morelli, strangolata nella sua abitazione a Roma il 6 agosto. Presentano caratteristiche simili le uccisioni di donne over 65. Perlopiù commessi da mariti o ex mariti o da figli maschi. Spesso sono definiti già nelle prime righe degli articoli “tragedie familiari” o “drammi della solitudine” quando il crimine è seguito dal suicidio del reo. A volte si parla di “delitti per pietas” o, peggio ancora, “delitti altruistici” se la vittima è una donna inferma. Giornalisticamente sono notizie che occupano un posto limitato in pagina. Non ci sono foto di giovani donne prese dai social, come richiede purtroppo, quell’ “estetica” della morte alla quale tutti, cronisti e lettori ci siamo assuefatti. Per queste vicende, solo foto di poliziotti che entrano dentro anonimi condomini o, al massimo, il primo piano di un’anziana signora in una fototessera sgranata. Il database che si vorrebbe non tenere e non aggiornare, quelle donne uccise all’interno di “delitti di genere” in Italia, ci dice che 22 delle 54 morte nel 2024 «in ambito familiare-affettivo» come le definisce il report del ministero dell’Interno, avevano più di 65 anni
Poco meno della metà del numero complessivo. Di queste 17 avevano più di 70 anni.
Il numero elevato di queste uccisioni e il modo cui vengono trattate e descritte da media ma anche nelle aule dei tribunali ci costringe a una riflessione. Perché tra i delitti di genere la percentuale delle uccisioni di anziane resta elevata e addirittura in crescita. Come conferma Paola Di Nicola Travagliai, magistrata, consigliera di Corte di Cassazione e consulente giuridica della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio della precedente legislatura: «Nella nostra relazione presentammo i risultati dell’esame di 242 fascicoli di delitti tra i quali individuammo 197 femminicidi» spiega la magistrata. «Di questi il 29,4% riguardava donne over 65, ovvero poco meno di un terzo. Tra questi c’era addirittura il caso di una donna ammazzata a 101 anni dal marito che ne aveva 100: uccisa a colpi di stampella.
Le vittime giovanissime e quelle più anziane sono quelle nella condizione di maggiore vulnerabilità: non chiedono aiuto, non sanno di poter chiedere aiuto». Perché scatta una sorta di rimozione culturale quando siamo di fronte a questi delitti? Perché c’è una maggiore difficoltà a definirli per quello che sono, femminicidi. La consapevolezza e l’attenzione mediatica che è stata data, per esempio, ai femminicidi di Giulia Tramontano e Giulia Cecchettin, quando si è riacceso il dibattito sulla violenza di genere come fenomeno che riguarda il nostro sistema culturale, non si replica per ogni femminicidio. «Tanto meno nei casi di uccisione delle anziane» sottolinea Di Nicola «eppure rientrano a pieno titolo in questa categoria come è stata definita dalla stessa commissione parlamentare: delitti da leggere e contestualizzare dentro un sistema culturale di disparità nei rapporti di potere che da sempre caratterizza le relazioni tra uomini e donne. Queste vittime sono donne inserite da anni in quello che definisco “il sistema del capotavola”, ovvero un’imposizione del proprio potere da parte del compagno Che però è sempre stata vissuta come normale all’interno del nucleo familiare e che, quasi mai viene verificata e ricostruita nelle cronache che si fanno di questi delitti».
La ricostruzione mediatica di solito è banalizzata, romanticizzata o drammatizzata. «Ed è una narrazione che finisce per passare anche nelle sentenze della magistratura se non è formata adeguatamente» spiega la magistrata. «Perché riconoscere il contesto culturale di ogni violenza di genere significa mettere in discussione un sistema che ci riguarda, riguarda le nostre madri, le nostre nonne da sempre. «Non risultano denunce per violenza», si legge spesso nelle cronache. Oppure si dà spazio a (inutili) testimonianze dei vicini di casa: “una coppia riservata”… “Lui era gentile, salutava sempre”.
I DIRITTI
«Ovvio che non risultino denunce» spiega ancora Di Nicola «perché mai una donna dovrebbe denunciare una condizione che considera normale? Parliamo di vite a cui il sistema familiare e sociale non ha mai riconosciuto alcun diritto di libertà in quanto donne tanto da far credere alla normalità dei divieti imposti dal partner o dal padre: controlli su dove andare, cosa acquistare, chi frequentare. Il “dramma familiare” di un omicidio-suicidio, poi, è quasi sempre la vicenda di una donna che non ha chiesto di morire, non ha lasciato lettere. Però un partner o un figlio si è arrogato il diritto di farlo.
La lettura stereotipata di questi delitti ci porta a giustificare uomini che non accettavano di farsi carico di queste persone, di curarle. Non capita quasi mai il contrario, perché le donne vivono la cura come una sorta di predestinazione, ma gli uomini no. Per loro è un fardello. In caso di omicidio suicidio la magistratura chiude il caso per la morte del reo, ma se si andasse a indagare su queste vite si scoprirebbero lunghe storie di prevaricazione. Neppure medici di famiglia e geriatri spesso sanno valutare la situazione di rischio che si crea in certe coppie. Anche una loro maggiore formazione sarebbe importante per prevenire queste violenze».