Siamo gerontofobici?
Tratto da un articolo scritto da Andrea Granelli e Odile Robotti dal titolo “Il Proiettile – La terza economia mondiale sono gli anziani” Pubblicato su Harvard Business Review
Gli stereotipi negativi impliciti che riguardano gli anziani hanno alcune caratteristiche che li rendono unici. Sono tra i più diffusi aperta parentesi più di quelli razziali o di genere chiusa parentesi tra i più marcati e presentano una notevole scollatura tra le due componenti implicita e esplicita. Questo fenomeno si verifica sempre aperta parentesi preferiamo dare una buona immagine di noi stessi negando di essere portatori di pregiudizi chiusa parentesi ma nel caso degli anziani e più ampio. La distanza tra dichiarato ed effettivo rende invisibile una componente rilevante del problema e quindi più difficile intervenire. Infine gli stereotipi negativi sono indipendenti dall’età. Anche questa è una stranezza: di solito un gruppo ha una opinione di sé migliore della popolazione che ne è al di fuori. Tutti hanno la prospettiva di diventare anziani, ma acquisiscono passivamente durante la vita pregiudizi negativi nei confronti del gruppo a cui, se tutto va bene finiranno per appartenere. Mentre chi è vittima di altri stereotipi ha tutta la vita per imparare a contrastarli, noi passiamo l’esistenza ad assorbire pregiudizi negativi sugli anziani finché, a un certo punto, passiamo dall’altra parte. Non c’è da meravigliarsi quindi che gli stereotipi negativi siano molto radicati anche negli anziani punto per uscire da questa trappola anzitutto bisogna far cadere alcuni miti.
lnvecchiamento 2.0. Sulla vecchiaia, come su quasi tutto, ci sono molte false credenze ed esagerazioni. Tra i miti più consolidati, c’è quello che il calo delle capacità cognitive inizi a vent’anni. In verità, la ricerca recente ci dice che abilità cognitive diverse hanno picchi in età differenti. Certamente l’intelligenza cosiddetta fluida (sostanzialmente capacità di risolvere i problemi in situazioni nuove) raggiunge il massimo intorno ai 20 anni, ma per esempio, la capacità di riconoscere i volti e la memoria visuale a breve crescono fino ai 30 anni e la memoria a breve inizia a declinare solo a 35 anni. La capacità di valutare lo stato d’animo degli altri ha un picco tra i 40 e i 50 anni e l’intelligenza cosiddetta cristallizzata (misurata con test sul vocabolario) continua a crescere fino ai 60-70 anni. Anche l’autostima, ingrediente importante del successo, aumenta nel corso della vita (stabilmente per le donne, con un breve calo intorno ai 45 anni, per poi riprendere la crescita, per gli uomini). Un’altra credenza è che la voglia e la possibilità di intraprendere nuove avventure siano proprie dei giovani. Esistono però vari casi di imprese avviate con successo in età matura che dovrebbero far riflettere: Harland Sanders aveva 62 anni quando ha fondato la catena Kentucky Fried Chicken; Taikichiro Mori da accademico si è trasformato in grande magnate dell’immobiliare a 51 anni fondando la Mori Building Company; Ray Kroc faceva il commerciale in un’azienda di macchinari prima di acquisire la McDonald’s a 52 anni; Tim and Nina Zagat erano entrambi avvocati 51enni quando hanno pubblicato la prima guida Zagat e Julia Child faceva la pubblicitaria fino a quando, a 50 anni, pubblicò il primo libro di cucina per poi consacrarsi a super-chef di fama planetaria. Infine, anche la comparativamente giovane Vera Wang era pattinatrice artistica fino a 40 anni, età in cui ha deciso di diventare stilista, con il successo che tutti sappiamo. Certo, si tratta di casi eccezionali: non tutti diventano così famosi, a nessuna età. La profezia che si auto-avvera. L’età anagrafica, dunque, è una variabile il cui impatto sulle capacità e sulle possibilità degli individui è probabilmente sovrastimato. Purtroppo, però le profezie tendono ad autoavverarsi: la letteratura scientifica ha ampiamente dimostrato l’effetto degli stereotipi nel condizionare i comportamenti di chi ne è oggetto e gli anziani non fanno eccezione (Meisner, 2010). È come se ci fosse un adeguamento allo stereotipo da parte di chi ne è oggetto: negli anziani gli stereotipi negativi diminuiscono la memoria, le capacità motorie e altri aspetti della performance fisica. La stereotipizzazione positiva ha invece l’effetto opposto, ma con dimensioni molto inferiori. I più influenzati dalla stereotipizzazione negativa sono i soggetti maggiormente istruiti (Hess, Hinson, & Hodges, 2009). Quest’ultima evidenza suggerisce quanto pesante possa essere l’impatto degli stereotipi negativi per i knowledge worker.
Il proiettile d’argento
Senza false ipocrisie, constatiamo che nelle organizzazioni gli anziani sono più spesso tollerati e marginalizzati che valorizzati. Vale la pena di riflettere su alcuni accorgimenti che possono aiutare le organizzazioni a cogliere il potenziale dei senior e del lavoro intergenerazionale, cioè a usare il proiettile d’argento. Partendo da una premessa.
Sembrano anni luce. La distanza tra generazioni a volte appare enorme, tanto da farci pensare che l’unità di misura più adatta siano gli anni luce invece degli anni. Certo, l’espressione “ai miei tempi era diverso” non l’abbiamo inventata noi, però alcuni valori e preferenze sono cambiati più radicalmente di quanto sia avvenuto in precedenza tra una generazione e le successive. Anche la definizione del successo e quello che ci si aspetta dai leader e dall’organizzazione per cui si lavora non sono più le medesime per tutte le generazioni. Ne consegue che anche la comunicazione organizzativa a generazioni diverse debba essere differenziata.
Bisogna diventare poliglotti. Il poliglottismo generazionale, competenza indispensabile per i leader, significa saper comunicare bene con persone di età diverse. Per possedere questa capacità, bisogna anzitutto conoscere le diverse generazioni e il contesto in cui si sono sviluppate le caratteristiche che le connotano, senza pretendere che ci assomiglino e senza confondere le differenze con mancanze. La conoscenza dei grandi temi di ogni generazione può essere una utile chiave di lettura dei comportamenti, stando però attenti a non cadere negli stereotipi (cioè, senza farsi condizionare al punto da non distinguere le differenze tra esponenti di una stessa generazione). Per esempio, la cosiddetta Generazione Silente (anni di nascita: 1933-1945), cresciuta durante la guerra, ha sviluppato auto-disciplina e spirito di sacrificio, i BabyBoomer (anni di nascita: 1946-1964), cresciuti invece in un periodo di prosperità, hanno sviluppato ottimismo e desiderio di realizzazione. La Generazione X (anni di nascita: 1965-1976), quella che ha visto un aumento nel lavoro femminile (meno mamme casalinghe), ha conseguentemente sviluppato più senso di indipendenza, resilienza e adattabilità rispetto alla generazione dei genitori. Non a caso, tipicamente non gradiscono il micro-management, cioè vogliono poter raggiungere gli obiettivi in libertà, anche se desiderano ricevere feed-back. I Millennial (anni di nascita: 1977-1998), che sono cresciuti in un contesto bambino-centrico e hanno avuto molte occasioni di socializzazione nell’infanzia, hanno in generale sviluppato molta più sicurezza e spirito di squadra delle generazioni precedenti. Nessuna meraviglia che sul lavoro desiderino avere nuove sfide ma anche essere supportati e ricevere attenzione. Come l’acqua e l’olio? Generazioni diverse, portatrici di competenze e atteggiamenti differenti, non sempre si miscelano spontaneamente, con il rischio l’organizzazione sia solo multigenerazionale (non inter-generazionale) e non incassi il dividendo della diversità, che si realizza solo in presenza di inclusione e effettivo interscambio.
1 Commento
Care mie, sono ancora dell’idea che vivendo 15 anni in più in media era il caso di lasciare che chi vuole lavorare pur in età pensionabile lo possa fare, possa ridurre le ore o i carichi , quando e se lo desidera, e non sottoporsi alla falsità , da un lato, e tortura dall’altro, che devono lasciare il posto alle nuove generazioni. Il pieno impiego di tutta la popolazione era una pratica dei balinesi ( Margaret Mead, Popoli e paesi), tutti a fare tutto , retribuiti anche pochissimo, la prossimità e relazionalità in ogni gruppo di lavoro conta di più. Es: a trasportare un tronco c’erano anche dieci posti in più di ogni lavoratore, l’importante era stare tutti in compagnia. Dovete acquisirla la capacità di ragionare per il bene delle persone invece per schemi del capitalismo, del neoliberismo , comunque del maschilismo. Valorizziamo il senso comune delle donne, quello che viene pensato per il bene delle persone e non quello assunto dal dover essere come i padroni dicono che si deve fare. Maschi disciplinati al maschilismo. Ma almeno uscite voi dal maschilismo, non è affascinante. E’ affascinante pensare con la ragionevolezze delle donne libere di sentire quello che desiderano fare, e rivelarlo alle altre come personale scelta singola, così da ascoltare le ragioni delle altre e sapere che possiamo avere idee personali in contrasto con il potere..
Dicevo che studi di tutto il mondo (e sono gia venticinque anni fà, mostravano la depressione e l’emarginazione di chi lascia il lavoro:( studi europei e di Giappone e America, prese di posizione di Cina e altri paesi non occidentali, vedevano le persone valere e permanere al lavoro nei modi che potevano per restare nella relazionalità del valore sociale. Antonella Nappi