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PACE AL FEMMINILE di Silvia Vegetti Finzi

Il termine Pace è tra i più inclusivi in quanto non vi è nessuno, che si reputi umano, che non consideri la Pace un valore, che non la desideri, non la invochi, anche quando la ritiene impossibile.

Credo che in questa aspirazione ognuno porti la propria singolarità, il proprio specifico essere nel mondo. In particolare, le donne che, raggiunti molti, seppure non tutti gli obiettivi di parità con gli uomini, sono ora impegnate a definire la loro identità.

L’identità femminile è, come tutte, multipla e sfaccettata in quanto abitiamo vari contesti e in ognuno ci presentiamo in modi diversi.

Ma il comune denominatore dell’essere donne risiede, a mio avviso, nella maternità.

Non intendo soltanto la maternità realizzata ma quella potenziale, rappresentata dal corpo e dall’immaginario femminile, dalla possibilità del sesso femminile di contenere, nutrire e dare alla vita.

Una predisposizione che esiste in tutte e che può essere realizzata nella filiazione oppure ignorata o sublimata in opere simboliche come la cura, l’educazione, l’arte, iniziative sociali e culturali che, pur prescindendo dalla procreazione corporea, ne conservano i valori di creatività e generosità.

Riconoscere e condividere la potenzialità materna ci permette di affermare che la Pace è possibile, pensabile e realizzabile.  Quando una donna entra in contatto con le sue risorse interiori trova, già predisposto, un modello di Pace.

 Un modello latente nel corpo e nella mente ma che, una volta riconosciuto, diventa una proposta valida per l’umanità. In un momento storico così gravido di minacce, non c’è posto per separazioni e contrapposizioni. La Pace è preliminare rispetto agli esiti della guerra e va perseguita per se stessa.

Il modo di pensare dominante nelle società occidentali, basato sulle antinomie, le valutazioni, il ragionamento calcolante, inconsapevolmente rinvia il cessate il fuoco a data da destinarsi, mentre ogni momento segna, da una parte e dall’altra dei belligeranti, un trionfo della morte contro la vita. E, di fronte a una posta così alta non c’è tempo da perdere.

Perciò mi auguro che un pensiero di donna possa esprimere una logica diversa, un desiderio differente, una parola alternativa: una Pace al femminile.

Ma vediamo che cosa intendo con questa proposta.

Il rapporto sessuale, complementare e reciproco, è geneticamente finalizzato a generare un figlio, ma per le donne comporta un impegno in più perché dovranno contenerlo, nutrirlo e infine lasciarlo andare perché viva la propria esistenza e la prolunghi nella specie.

Un progetto vitale che può essere trasposto in ogni ambito, in ogni relazione.

Nulla di più lontano dalla guerra e dai suoi fantasmi di occupazione, distruzione e morte.

Poiché le donne non hanno mai fatto la guerra, anche se ne sono state vittime, né finora si sono attribuite, come gli uomini, il diritto di uccidere (per secoli l’esercito è stato esclusivamente maschile), ritengo che la loro riflessione in ordine alla Pace meriti di essere ascoltata.

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 Con pensiero di donna

Al compimento del suo 103° anno, il filosofo francese  Edgard Morin, nel suo ultimo libro, intitolato Svegliamoci, dopo aver  preso atto che quella che stiamo vivendo non è soltanto una crisi economica, sociale ed ecologica, ci  invita  a  PENSARE  senza precipitarci a fare, ad agire. Il pensiero, anche quando rimane muto, è sempre un’esperienza attiva, comunicativa, performativa.

Come non esiste musica senza intervalli, così non esiste linguaggio senza silenzio. Tutto ciò che è stato pensato intenzionalmente è vivo e può modificare il mondo.

L’invito di Morin è particolarmente attuale oggi, nel momento in cui tutto sta cambiando. La natura si ribella all’abuso delle sue risorse ;  la scienza mostra l’irrazionalità dei fini celata dall’apparente neutralità dei mezzi  e la società si confronta con l’incapacità di governare un  mondo globalizzato

Come avverte Papa Francesco, non siamo di fronte a un’epoca di crisi ma alla crisi di un’epoca, a un crollo repentino, che coinvolge tutti. Di qui l’invito a restare umani.

Per secoli il genere femminile si è pensato e modellato dal punto di vista maschile, interiorizzando i valori degli uomini. Vi sono state, storicamente, vistose eccezioni ma, in generale, la comunità delle donne ha intrapreso da poco a pensare partendo da sé, dalla propria specificità: mezzo secolo contro millenni di  pensiero maschile. Il femminile materno non è potere ma potenza, non chiede autorità (che può essere imposta con la forza) ma autorevolezza ( che solo gli altri possono attribuire).

La presenza delle donne (che sono tali non per anagrafe ma per coerenza con la loro identità femminile e materna) avviene in un momento particolarmente difficile, quando il pensiero umano si sta rivelando inadeguato a se stesso.

Si ha l’impressione che conseguenze del progresso tecnico e scientifico, come gli algoritmi, il multiverso, l’intelligenza artificiale o la robotica più avanzata, eccedano le nostre possibilità di controllo.

Inoltre, anche quando riusciamo a capire razionalmente, ci sfugge il comprendere, il sentirci emotivamente coinvolti nella realtà, che non è solo circostante, ma fuori e dentro di noi.

Alla contrapposizione tra interno ed esterno, micro e macrocosmo, si sottrae l’organismo femminile, sempre connesso al mondo della vita.

In quanto retto da cicli cosmici, governato dalle fasi lunari, in sintonia con le maree, sensibile all’alternarsi delle stagioni, il corpo femminile appare prossimo a quello che gli antichi chiamavano “anima mundi”.  E al tempo stesso partecipe della società, coinvolto nelle sue vicende e nelle sue contraddizioni.

Nella tarda modernità quello che abbiamo pensato come separato si è rivelato interconnesso, tutto quello che abbiamo pensato come rassicurante si è rivelato perturbante.

Persino il concetto di “natura” ha perso la funzione convalidante e normativa svolta da Aristotele in poi.

 Da quando la Madre Terra è stata dissacrata da una concezione meccanicistica del mondo, ci sentiamo autorizzati a sfruttarla irresponsabilmente. Benché gli scienziati si affannino a spiegare che il disastro ecologico è la conseguenza del nostro comportamento, il coinvolgimento collettivo non scatta e la responsabilità non si mobilita.

Eppure la fecondità umana, entrata in una crisi che si teme irreversibile, ci pone di fronte, non solo al rischio di perdere la più radicata e potente delle relazioni tra i sessi, quella tra genitori, ma anche alla possibile sparizione della nostra specie. Sembra avverarsi, nel mondo globalizzato, la maledizione di Tebe condannata, dalle colpe di Edipo, all’infertilità del grembo femminile e all’aridità delle messi.

Tuttavia questa minacciosa previsione ci lascia indifferenti perché rivolta a uomini e donne sempre più vecchi, egoisti e soli.

Nelle giovani donne la realizzazione della maternità, rinviata a data da destinarsi, sopraffatta da altre istanze – lo studio sempre più prolungato, la carriera, il successo, la popolarità – rischia di diventare l’impensato della nostra epoca.

La denatalità e ultimamente la catastrofe annunciata dalla minaccia atomica rivelano l’eterna competizione tra Eros e Thanatos, Amore e Odio, Principio di vita e Principio di morte, una concezione antagonista del mondo che inizia con Empedocle e procede, attraverso Platone e Aristotele, sino e oltre Freud.

E’ indubbio che la guerra d’aggressione si collochi dalla parte dell’odio, del male, del Principio di morte, soprattutto quando lo scopo diviene la guerra stessa, quando non se ne prevede la fine, né si contemplano limiti e misura al suo inesorabile procedere.

In questo conflitto eterno, l’intervento della riflessione femminile si pone dalla parte del Principio di vita, di Eros, non in modo astratto e impersonale ma dando voce a un “pensiero incarnato”. Come scrive Leopardi nello Zibaldone: “il corpo è la materia dell’anima” e quello femminile lo è in modo particolare come rivela la radice mat, comune sia a Madre che a materia.

L’atteggiamento materno attribuisce a qualsiasi realizzazione un carattere donativo e creativo, e quanto produce, foss’anche un gesto di accudimento, è unico e irripetibile. Esemplare il fatto che ciascuno di noi è un unicum e, bello o brutto che sia, costituisce un capolavoro.

Considerata da un altro punto di vista, l’atteggiamento materno può essere compreso e condiviso anche dagli uomini in quanto tutti si nasce figli.

Come scrive Adrienne Rich: “Tutta la vita umana nel nostro pianeta nasce da donna. L’unica esperienza unificatrice, incontrovertibile, condivisa da tutti, uomini e donne, è il periodo trascorso a formarci nel grembo di una donna…Per tutta la vita e persino nella morte, conserviamo l’impronta di questa esperienza”.

Con questa osservazione siamo approdati, dalla singolarità di ogni nato, a una dimensione universale, quella dell’umanità partorita tutta, almeno sin ora, da corpi femminili e materni.

Se la condizione di figlio costituisce un universale, lo stesso accade per la condizione di madre, estesa a tutte le donne in quanto portatrici di un programma di vita che rappresenta, nella sua idealizzazione, un paradigma etico. Cerniera tra corpo e mente, dentro e fuori, conscio e inconscio, natura e cultura, identità e alterità, immanenza e trascendenza, la maternità è un laboratorio aperto di pensieri e immagini.  “Come ogni archetipo, scrive Jung, anche quello materno possiede una quantità pressoché infinita di aspetti”.

Aspetti luminosi ma anche ambigui e contradditori, come rivelano le figure della strega e della matrigna che si celano dietro la fata e la madre. Non solo tutte le donne, ma neppure tutte le madri, sono materne.

Ciò nonostante, il processo di “mettere al mondo”, “dare alla luce”, generare possiede elementi positivi che si oppongono a Thanatos, alla distruttività della guerra, al nichilismo del non senso, al prevalere del negativo che genera e perpetua i conflitti.  Ogni nascita è un inizio che apre orizzonti di futuro e, poiché nessuno nasce solo, di relazione reciproca.

La dialettica del riconoscimento, che costituisce la precondizione per la Pace, si realizza facilmente tra donne in nome dell’identità materna che le unisce indipendentemente dalla lingua, dai confini, dalle differenze sociali, dalle ideologie, dai costumi.

La madre, in quanto principio di Vita, non rientra nelle logiche mortifere del conflitto bellico.

Eppure la guerra, mandando i giovani a morire, colpisce innanzitutto le madri che, nel  lutto, si uniscono e lottano insieme come nel caso delle Donne in nero e delle Madri della “Plaza de Majo”.   Mi auguro di non vedere mai più scene, come quella diffusa qualche settimana fa dai mass media: una decina di madri di figli morti in battaglia mentre, in una sala del Cremlino rutilante di luci, prendevano amabilmente il tea con Putin. Per inciso, avete mai fatto caso che non esistono parole per indicare genitori che hanno perso un figlio?  Si dice “vedovo/a, orfano/a ma la lingua tace di fronte al dolore più grande.

Ma, anche se le nostre voci non riescono a superare l’ingiunzione al silenzio da sempre rivolta alle donne, perché non darci simbolicamente la mano e stringere patti di alleanza prima che l’inconcepibile accada, finché i figli sono vivi e possiamo salvarli ? Perché dopo e non subito ?

Pensare, sentire, parlare e agire in conformità alla propria identità femminile e materna   supera le barriere sociali, crea prossimità, rende intime e confidenti. Le donne si alleano più facilmente quando, sottraendosi alla logica maschile, divisiva ed escludente, si riconoscono simili, fluide come acqua nell’acqua.

Pensieri ed emozioni si espandono anche senza pensatore, indipendentemente da chi li ha prodotti, finché una mente, sospendendo le difese immunitarie costituite da abitudini, stereotipi e pregiudizi, li accoglie e li fa propri.  Ciò vale per tutti ma in particolare per la genealogia femminile.  Mentre gli uomini si succedono transitando nel corpo dell’altro sesso, le donne si contengono le une nelle altre, come le matrioske russe.

Pensare la Pace, Desiderare la Pace, Pregare per la Pace, testimoniare la Pace in nome di un’identità  femminile e materna produce un’eco che può valicare  i confini tra nazioni sino a raggiungere donne che vivono isolate nelle immense pianure della steppa russa,  sui monti del Caucaso o in Siberia,  così come nelle città e nei paesi  ucraini  colpiti, talora distrutti, dalle bombe.  I loro gesti sono i nostri, le loro passioni ci appartengono.

Probabilmente non le conosceremo mai ma se le evochiamo dentro di noi, se proviamo per loro sentimenti di sorellanza, riusciremo a pronunciare insieme la parola Pace ( MIR tanto in russo quanto in ucraino) ,  un’aspirazione alla Vita che, condivisa, può cambiare il corso della storia.

Come scrive Gabriella Golzio,  in “ la muta preghiera”:

 

mater materia misura forma

formula madre magra di dio

dedita lacera lamina fera

avida pavida ruvida giara

foemina trepida rapida piena

lacrima lumen: luce leggera.

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